AZ: Lei ha diretto alcuni film e cortometraggi. Come è nato il suo amore per il cinema?
MARTINA: Sono di Torino, nato a Carmagnola, nel 1906. A Torino abitavo nell’Oltrepo e di fronte a casa mia c’era la strada che portava agli stabilimenti cinematografici Pittaluga. Dalla finestra, o per la via, ho visto Maciste e altri divi dell’epoca. Nella nostra palazzina, l’appartamento al primo piano era affittato a delle attrici di Pittaluga. Ho cominciato per passione, lavorando in proprio con una cinepresa. Ho sempre fatto documentari. Mai avuta la tentazione di fare film a soggetto. La Fiat mi ha commissionato un filmato sulla produzione dei cuscinetti a sfera che non è mai stato proiettato in pubblico, ma negli stabilimenti, perché gli operai imparassero come si facevano.
Nel 1930 mi sono trasferito a Parigi. Nel’31, ho girato un documentario sul cimitero di guerra in cui erano sepolti i militari italiani, a Bligny. Il film è stato visto in Francia, in Svizzera e a Londra, ma non in Italia. L’ho mandato a Blasetti, ma lui l’ha rifiutato perché, ha detto, era troppo triste. Ma come era possibile fare un film allegro su un cimitero, su un pellegrinaggio di vedove e orfani davanti alle tombe dei Caduti? Avrei dovuto fare allora un cartone animato sul tipo Skeleton Dance di Disney!
[[AZ: Guido Martina non mi ha parlato, durante l’intervista, della sua adesione al Futurismo. Con la prima moglie, Tina Cordero, e il pittore Pippo Oriani, ha girato in Francia, al principio degli anni 30, un film d’avanguardia, d’ispirazione marinettiana: Velocità/Vitesse. Il film è stato ritrovato solo di recente, quando Martina era già scomparso. Avevo notato però che nelle sue storie e nelle sue parodie c’è spesso una punta di umorismo surrealista, una propensione per il gesto gratuito e lo sberleffo iconoclasta… Tutto quello che mi ha detto su questo periodo – non so quanto amasse parlarne – l’ho trascritto in queste poche righe:]]
MARTINA: In Francia ho assistito alla prima de L’âge d’or di Luis Buñuel. C’era Cristo che entrava in un casino e se ne andava in bicicletta… Si vedeva la distruzione di Roma, commentata da signori in frac e tuba… la gente naturalmente reagì male, reagì a calamai sullo schermo…
[[da questo punto in poi, lascio parlare solo Guido Martina: i miei appunti diventano lo scheletro di un’Autobiografia]]
Dal ’30 al ’35, sempre in Francia, ho fatto altri documentari. Girai un film in Algeria sul centenario della legione straniera. Per far entrare la mia cinepresa in Algeria, dovetti andare personalmente dal Presidente della Repubblica francese e ottenere un permesso speciale.
A Parigi avevo un segretario svizzero e una Bugatti, una splendida automobile, comprata di seconda mano da un principe. Feci una villeggiatura in Italia e, quando ritornai, non c’erano più, né il segretario, né la Bugatti. Poi ho scoperto che lo svizzero era una spia inglese. Pensare che con me fingeva di non sapere neanche la lingua! Ho saputo che l’hanno arrestato come spia e l’hanno impiccato a Beirut. Ma della Bugatti non è mai stata trovata traccia. Un mistero…
Mi ero laureato nel frattempo a Torino con una tesi, preparata a Parigi, su “i due Prati”: cioè il poeta Giovanni Prati “classico e romantico”. Relatore era stato il professore Cian. Così nel 1935 sono tornato in Italia, e mi sono messo a fare il professore di italiano in un liceo milanese.
Sempre nel ‘35 ho cominciato a lavorare per Zavattini, per la rivista Cinema. Un giorno Zavattini mi chiamò e mi disse: “mi scriva qualcosa che faccia colpo: siamo d’estate e le vendite sono fiacche”. Io allora scrissi un articolo che fece scalpore. Mi inventai che Shirley Temple non era affatto una bambina prodigio: era una nana e aveva un marito gelosissimo. Non le dico quello che è successo: dai produttori americani è arrivata una lettera e minacciavano una querela se non smentivamo. Insieme alla lettera arrivò anche una fotografia delle braccine e delle gambine di Shirley Temple: “vi sembrano quelle di una nana?”.
Zavattini mi chiamò e mi disse “Se fossimo in America, questo articolo sarebbe stata la sua fortuna. In Italia invece le rende 100 lire “… e me le diede. Io avevo pronto un altro pezzo su Marlene Dietrich e un incidente automobilistico che le aveva deturpato le gambe, ma non l’ho potuto pubblicare per la grana precedente…
[[L’eco di queste fake news inventate da Cinema fu immediato e cospicuo in tutto il mondo. L’Osservatore Romano, portavoce del Vaticano, inviò un giornalista, il sacerdote Silvio Massante, a casa della piccola attrice, per incontrarla e verificare di persona l’attendibilità dell’articolo di Martina. Shirley non fu intervistata: per lei rispose la madre che – lo ricorda la Temple nelle sue Memorie – restò sbalordita nell’apprendere le voci che circolavano in Europa.]]
MARTINA: Zavattini poi mi chiese se accettavo di fare il redattore-capo per un settimanale. Io dissi di sì, pensando si trattasse del Cerchio Verde, il figlio del Giallo Mondadori. Imparai anche alcune parole tecniche del gergo americano dei gialli. Invece si trattava delle Grandi Firme, una pubblicazione famosa perché ci scriveva Pitigrilli. Lì ho conosciuto Pitigrilli e l’ho rivisto anche a Parigi. Era un signore. Non è vero che fosse avaro, ci sono troppe leggende su di lui. Le voglio raccontare un aneddoto. Quando era a Parigi con la prima moglie, corteggiava una polacca, che era dentista. Lei gli disse: se mi vuole corteggiare, perché non si fa curare i denti?
Naturalmente per scrivere sui giornali, non mi facevo più vedere alla scuola. Così il preside venne a cercarmi a casa e, saputo dove lavoravo, andò a parlare con Zavattini alla Mondadori. Zavattini mi chiamò e mi disse che gli dispiaceva ma doveva licenziarmi, perché lavoravo in una scuola pubblica; ma poi mi consigliò di risolvere la faccenda con l’aiuto di qualche “pezzo grosso” del regime. Io naturalmente preferivo fare il giornalista piuttosto che il professore, perché riuscivo a guadagnare anche 7 o 8000 lire al mese, che per allora era una grande cifra. Quindi trovai il “pezzo grosso” che faceva al caso mio, andai a incontrarlo, gli spiegai la situazione e grazie a questo personaggio ottenni un certificato medico dove si diceva che “non potevo insegnare, perché non ero in grado di parlare”. Zavattini mi ha riassunto subito: un caso unico nella storia della Mondadori.
Quello è il periodo in cui conobbi Mario Gentilini. Allora, alla Mondadori, Gentilini biaccava le tavole dei fumetti, cancellava il retino… è stato solo con lo scoppio della guerra che Mondadori lo ha incaricato di scegliere il materiale Disney, che a quei tempi era proibito pubblicare.
Nel ‘40 io fui richiamato con il grado di tenente e spedito sul fronte dell’Africa settentrionale. La guerra me la sono fatta tutta, fino a El Alamein. Un giorno mi diedero il permesso di rientrare in Italia con mezzi di fortuna. Andai dai tedeschi e gli chiesi un passaggio aereo. Mi fecero salire a bordo di uno Stukas: io non sapevo che fosse in missione di guerra e che andava a bombardare Malta! [fa, con la mano destra, un segno che a Roma significa inequivocabilmente: strizza]. Per la fifa, appena messo piede sul suolo patrio, invece di baciarlo, ci ho fatto la pipì!
I tedeschi mi chiesero se volevo lavorare con loro a un impianto radar che avevano sul Mar Baltico, e io accettai. Da lì ci trasferimmo vicino a Vienna. Ricordo che ci fu un bombardamento americano che durò dalle 11 e mezza della mattina fino alle 2 del pomeriggio. Una bomba colpì il deposito del gas e ci fu una terribile esplosione. Un frammento incandescente mi sfiorò. Per pochi centimetri riuscii a salvare la pelle.
Poi ci fu l’armistizio. Fui immediatamente arrestato dai tedeschi e portato in un campo di concentramento, sempre in Austria. Alla fine della guerra – l’Austria cadde prima della Germania – rientrai a piedi in Italia. Fino a Verona. Un mio Sottotenente, un amico, si offrì di darmi ospitalità a Bologna. Non so perché non accettai. Lo vidi partire su un camion. Non è mai arrivato a destinazione. I Partigiani l’hanno fermato e hanno trucidato tutti. Solo qualche anno più tardi si scoprirono gli scheletri. Il camion, che era del Vaticano, era stato ripitturato ma trovarono anche quello. Insomma arrivai a Milano dove ho avuto l’amara sorpresa di trovare la casa distrutta e mia moglie, morta. Uno spezzone incendiario era entrato in casa e aveva bruciato tutti i mobili. Mia moglie era morta sotto le bombe in un posto dove era sfollata. Non mi riconobbero una lira di danni di guerra.
Cominciò un periodo di miseria assoluta. Per dirle: una volta da un camion cadde un’albicocca e quella fu il mio unico pasto della giornata. Per fumare – ho sempre fumato fino a 100 sigarette al giorno – raccoglievo le cicche per terra. Ho pubblicato un articolo sul Corriere Lombardo, in quel periodo, in cui mi sono inventato una statistica sul fumo nei quartieri milanesi: non c’era una cifra vera, tutto frutto di fantasia.
Ho cominciato a fare sceneggiature di fumetti allora, per un tale che la sera andava a divertirsi e mi pagava in sigarette – 5 per una notte di lavoro. Volevo tornare alla Mondadori ma non osavo ripresentarmi in quello stato pietoso, ero veramente malconciato. Finalmente trovai un lavoro e potei comprarmi una camicia. Allora era difficile trovare un’occupazione ma ci riuscii perché finsi di essere fascista e mi feci aiutare da un nostalgico. Io non sono mai stato fascista; quando mi chiedevano la tessera rispondevo: “l’ho lasciata a Parigi”. Me lo potevo permettere, perché sul passaporto c’era scritto: “italiano residente in Francia”. Ma insomma, grazie al nostalgico cominciai a lavorare per un grossista di carta straccia. Tagliavo i pacchi. Non mi davano un soldo: mi pagavano con scarpe, indumenti e cibo. Quando il grossista andò in villeggiatura, mi decisi e mi ripresentai da Gentilini, alla Mondadori. Lui mi riprese subito. Ho sempre avuto fortuna nella vita…
Ho cominciato a lavorare per Topolino quando era ancora un giornale di grande formato. Traducevo le tavole giornaliere di Mickey Mouse e le strips di Taliaferro. Scrivevo delle nuove didascalie. Oltre questo, non ho mai fatto – perché non c’è mai stata a Topolino – una vera scuola di sceneggiatura. Allora i disegnatori di Mondadori ricevevano un grande foglio dove era indicato approssimativamente il disegno e trovavano le battute da inserire nei fumetti. Sono stato io che ho introdotto le sceneggiature tipo cinema, su fogli dattiloscritti. Ho scritto più di 300 storie, dal dopoguerra a oggi. La prima che scrissi fu L’inferno di Topolino. Presi 40.000 lire per questa storia. La sceneggiatura fu mandata a Disney che non solo l’approvò, ma decise di inserirmi nel suo staff. Cominciarono a dare agli altri collaboratori le mie sceneggiature perché imparassero a farle. Ecco perché molti hanno detto: il Topolino italiano non è di Disney, ma di Martina…
Verso il 1956-57 Disney cominciò a mandarmi dall’America i soggetti prodotti dai suoi collaboratori perché io lì esaminassi e li giudicassi. Ero obbligato, poi, a sceneggiare su questi soggetti americani, ma i compensi erano inferiori a quelli che prendevo per le mie storie. Le mie sceneggiature poi venivano pubblicate in Italia e quindi in America. Il problema dei soldi è sempre esistito. Gentilini non mi ha mai pagato i diritti d’autore sulle ristampe (Gaudenzio Cappelli, il suo successore, sì). Disney, ma questo non lo scriva, chiamava il Mondadori il “Commendator… Rapina”, perché provò addirittura a non pagarlo…
Di solito, sapevo a quale disegnatore italiano di Topolino sarebbero andate le mie sceneggiature. C’erano disegnatori di serie “A” e di serie “C”. Giovan Battista Carpi è di serie extra. Al principio, Romano Scarpa aveva bisogno di moltissimi suggerimenti. Le sue storie non mi piacciono, le trovo un po’ fiacche. Il disegno invece mi piace moltissimo. Adesso mi trovo molto bene con De Vita figlio. Un tempo con Bottaro: questi non hanno mai travisato le mie storie.
Dal ‘61 al ‘69 ho lasciato Mondadori e ho lavorato con Rizzoli. Quando poi Gentilini mi ha richiamato, c’è stato un decollo nelle vendite. Per Mondadori ho scritto le sceneggiature di Pecos Bill, dal ‘49 al ’55, per disegnatori che si chiamavano De Vita padre, Paparella, Battaglia, Gamba. Ho scritto storie di Oklahoma, altro fumetto di ambientazione western. Adesso [[1984]] collaboro anche con il Giornale di Barbie. Ho vinto il premio “Bancarellino” con Il mio amico Satellite, un saggio di divulgazione scientifica per ragazzi, illustrato da De Vita. È stato tradotto e pubblicato in 16 nazioni.
AZ: Per concludere: chi è, o chi era, Walt Disney per lei?
MARTINA: … [[Si alza e mi mostra una foto di Walt, che mi rammarico di non aver riprodotto sul giornale, e che non trovo neppure in rete]] … Un Amico… come mi ha scritto qui sopra, nella dedica…