Pietre preziose per curare i malanni furono impiegate fino ad epoche recenti, seguendo la voce popolare, o le prescrizioni dei dotti. Qualcuno notò che anche il colore dei gioielli influenzava, se non le guarigioni, almeno il benessere dei pazienti. Nei Secoli XIX e XX, come è giusto in ogni Combinatoria ben assortita che si rispetti, qualcun altro eliminò le pietre dalle terapie, e lasciò solo i Colori.
Chissà perché, questa corrente teorica affascinò soprattutto le menti dei militari. Nel 1871, un generale dell’esercito confederato, Augustus J. Pleasonton, pubblicò negli Stati Uniti un pionieristico opuscolo su carta blu: On the Influence of the Blue Color of the Sky in Developing Animal and Vegetable Life. In esso traspose le sue esperienze: già nel 1861 si era accorto dei benefici effetti che scaturivano dai raggi del sole, quando attraversavano una bottiglia di vetro blu. Convinto che il colore del cielo, “deve avere una qualche relazione costante e intima connessione con gli organismi viventi su questo pianeta”, saggiò le virtù del blu (frammisto al violetto) proiettandolo attraverso delle lenti su una sua vigna: ottenne, in questo modo, una crescita miracolosa dei grappoli d’uva. Poi passò a inondare gli animali della sua fattoria di raggi bianchi e violetti, centellinando il loro pastone: i suoi porci si gonfiarono, in quattro mesi, come otri.
La scoperta non rimase isolata: anche se pare non abbia contribuito ai progressi dell’agricoltura.
Riferisce Martin Gardner nel suo meraviglioso e imprescindibile saggio Fads and Fallacies in the Name of Science, che il colonnello medico Dinshah Pestanji Framji Ghadiali (1873-1966), statunitense d’origine indiana, intravide nuove opportunità in questa intuizione, strappandola alle fattorie e applicandola nel campo assai più fruttifero della scienza medica.
Dinshah Ghadiali, intorno al 1920, inventò una “Macchina per la terapia del Colore”, con la quale investiva di raggi multicromatici i suoi pazienti. Combatteva la gonorrea sottoponendo i malati a violente esposizioni al grigio e al blu; fasciava i diabetici di luci alternate, giallo e magenta; sperimentava per primo il colore vermiglio per spegnere gli ardori sessuali – facendo tuttavia bene attenzione, perché, aveva scoperto, che il colore scarlatto (così vicino nello spettro), al contrario, li accende.
Lasciò testimonianza delle conoscenze che aveva accumulato nei tre volumi della sua Spectro-Chrome Metry Encyclopedia. Nel 1925 fu internato in un carcere. Protestò la sua innocenza con un testo di classica impostazione “mattoide”, annunciando d’essere vittima d’una congiura che aveva concentrato contro di lui poteri soprannaturali, ipnotismo, mesmerismo, proiezioni astrali, sétte sataniche e stregonesche, Ku-Klux-Klan, e, last but not least, l’industriale Henry Ford.
Un’altra “Macchina a raggi colorati” per la cura delle malattie fu inventata – e brevettata, lo ricorda ancora Gardner – dal medico nordamericano Charles Wentworth Littlefield. Impiegando la sua creazione, Littlefield riuscì a ricostruire la pelle dei glutei di una cameriera di Seattle, devastata da un’orribile ustione. Almeno, se diamo retta a quanto riferisce il clinico nel suo libro: The Beginning and Way of Life.
Littlefield è stato immortalato come scultore di opere acheropite da J. Rodolfo Wilcock (ne: La Sinagoga degli iconoclasti), perché “con la sola forza della sua volontà il chirurgo riusciva a far cristallizzare il sale da cucina in forma di pollo o di altri piccoli animali”.