Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, universalmente noto come “Barone di Münchhausen” (Bodenwerder, 11 maggio 1720 – Bodenwerder, 22 febbraio 1797), è un personaggio storico realmente esistito. Molte delle millanterie e sbruffonaggini che gli sono state poi attribuite dallo scienziato Rudolf Erich Raspe, sono davvero sue invenzioni, con le quali dilettava gli ospiti, in tarda età, nel suo castello. Di origine tedesca, combatté nelle schiere dell’esercito russo, ma non raggiunse mai nessun ruolo importante di comando.
A Le avventure del Barone di Münchhausen fu dedicato uno degli ultimi kolossal prodotti dall’UFA durante il regime nazista. Il film, uscito nel 1943, era stato fortemente voluto da Goebbels per festeggiare il 25simo anniversario dello Studio berlinese, nel quale in passato erano stati girati i capolavori di Fritz Lang e dell’Espressionismo tedesco.
Contrariamente alle aspettative di hitler, il ministro della Propaganda volle che per questo grandioso giubileo venisse realizzato un prodotto di intrattenimento e di largo consumo, che non avesse attinenza con le vicende belliche contemporanee. Goebbels intendeva dimostrare al mondo intero che la cinematografia tedesca era all’avanguardia nell’uso dl colore e degli effetti speciali, surclassando i grandi successi in technicolor di Hollywood e degli Inglesi, come Il Mago di Oz e Il Ladro di Bagdad. Per questo furono privilegiate nel film le atmosfere fiabesche ed esotiche, da Mille e una notte. In aggiunta, il ministro tollerò (o pretese) nella storia un tocco di ammiccante o scoperto erotismo, che certo non appartiene all’autentica vena delle avventure di Münchhausen.
Sovvertendo l’iconografia classica, imposta nell’Ottocento da Gustave Doré, il barone fu interpretato da un attore più giovane del consueto e inoltre credibile nella parte di dongiovanni: Hans Albers, famoso anche come cantante, e già interprete dell’Angelo Azzurro, di Sternberg. La regia fu affidata a Josef von Báky, che dopo questo exploit non brillò più per inventiva. Altra anomalia, la sceneggiatura fu scritta, senza che Goebbels intervenisse, da un notorio letterato antinazista: Erich Kästner, autore di best sellers per ragazzi, come Emilio e i detectives (1929).
Le avventure del Barone di Münchhausen, rivisto oggi (anche nella versione purgata dal regime), resta un film da “riscoprire”, veramente godibile e dalle notevoli atmosfere Fantastiche. Ne riproponiamo qui due frammenti: nel primo vediamo il più celebre fanfarone della storia cavalcare con molta eleganza e ironia la classica palla di cannone. Ma vale la pena di soffermarsi sul suo arrivo, con quel mezzo, alla corte di Abdul-Hamid. Il sultano è interpretato da uno strepitoso Leo Slezak, una delle voci liriche più famose del XX secolo, tenore eroico apprezzato da Mahler e da Toscanini. Slezak (padre dell’attore hollywoodiano Walter) era sposato con una donna di religione ebraica, ma era talmente venerato dalle folle, che il nazismo non osò mai emarginarlo o minacciarlo. Il tenore era dotato di una straordinaria carica di simpatia. Corpulento e per nulla atletico, una volta, durante la rappresentazione del Lohengrin, non riuscì a montare sul naviglio trainato dal Cigno, che scomparve dietro le quinte; allora a alta voce si rivolse al pubblico: “Sapete quando passa il prossimo Cigno?”. Il pubblico lo applaudì a lungo, estasiato per la battuta.
Nel secondo frammento, assistiamo alla sfida tra il principe russo Potëmkin e Münchhausen, Anche in questo caso, c’è molta ironia: non c’è spazio nel film per una smaccata propaganda antisovietica, nonostante il nazismo stesse sferrando, durante le riprese, la sua feroce offensiva contro Stalingrado.
Il Barone, a Pietroburgo si è unito alla corte di Caterina la Grande. L’imperatrice-ammaliatrice vuole nominarlo suo aiutante di campo e si offre di sistemarlo in una stanza collegata alla sua con un ascensore segreto. Münchhausen accetta di restare finché uno di loro non si stancherà dell’altro. Però il Barone per questa sua impudenza sarà costretto a scontrarsi col plenipotenziario di Caterina, Potëmkin in un epico duello col “Cuccù”.
In un certo senso, il “Duello col Cuccù” può essere considerato la “vera” Roulette Russa.
Si fa il buio assoluto in una stanza; prima uno, poi l’altro, dei contendenti, sono obbligati a gridare “Cuccù!”; dopo di che ognuno spara contro l’avversario solo orientandosi col suono della voce che ha udito.
Nel racconto “Il Cucù” di Sergéj Nikolàevic Sergéev-Cénskij (1875-1958), si descrive questa contesa come “tipica” delle caserme russe: un militare designato a sorte viene rinchiuso, con altri compagni, in una camera buia. Deve toccare i quattro angoli di quella stanza. Nell’oscurità più fitta, i suoi commilitoni gli sparano, tentando di colpirlo alle gambe. Se ce la fa a raggiungere i quattro cantoni senza venir falciato dalle raffiche, è salvo. In questo tipo di Duelli si riscontra credo una, non trascurabile, componente “fantastica”. Se non di pura e münchhausenesca follia.