Il dorso della Tigre
I- La Paura è forse il segreto della nostra Civiltà.
C’è il sospetto che essa sia a fondamento dell’urbanistica e dell’architettura. Ma quel che sorprende è che non si tratti, all’origine, della paura del nemico, del pirata, della guerra, delle razzie: bensì di un terrore per il nemico “occulto”. Lo attesta Eliade (in Sacro e Profano):
“Molto probabilmente le fortificazioni dei luoghi abitati e delle città erano difese magiche; queste difese – fossati, labirinti, baluardi, ecc. – erano disposte al fine di impedire l’invasione dei demoni e delle anime dei morti piuttosto che per far fronte ad attacchi da parte dell’uomo. […] Nell’Occidente medievale, i muri delle città erano consacrati ritualmente come una difesa contro il Demonio, la malattia, la morte”.
Decisamente, l’uomo non è mai stato materialista. Il materialismo fu la più grande delle sue Eresie.

II- Noi pensiamo che il bambino piccolo soffra solo la sete, la fame, i dolori, e che sia questo a farlo piangere, oppure, da egoista, l’inopportuna assenza dei genitori. No, è la paura. Il neonato piange anche e soprattutto per Paura.
La paura non viene dopo, nello sviluppo di un bambino. È subito. È tanta. Nuda paura. Per colpa dei seguaci di Freud pensiamo al bimbo come un Dio pagano sulla Terra. Una monade concentrata in se stessa, urtata e offesa nella propria superba pretesa d’invulnerabilità. Strillerebbe, il neonato, perché qualche agente esterno sta turbando la sua perfezione: fatti fisici contingenti, o intromissioni edipiche. Mentre invece il bimbo piccolo e piccolissimo, sente e paga di continuo la propria fragilità esistenziale e la mancanza di difese “magiche”.
Nietzsche (in Aurora) ha sentenziato: “Tutto il passato è l’epoca della Paura”. Credo sia falso, da un punto di vista storico; vero, se consideriamo il nostro passato individuale, di bambini.
Secondo Thomas Burnet, Adamo fu “reso mortale” dalla Paura: e Adamo è il Neonato Archetipo – quando fu buttato fuori dal Paradiso, non aveva neanche un giorno.

III- La Paura era, presso gli Elleni, una Divinità venerata, autonoma.
I Greci divinizzarono Deimos (il Timore) e Fobos (la Paura), per reprimere con l’aiuto dei due potenti Dei le epidemie di terrore che in tempo di guerra mettevano in pericolo la patria. Miravano, conciliandola, a esorcizzare la Vigliaccheria dei Militari. Dell’angoscia privata si curavano di meno.
È comunque interessante notare che, anche nel momento di elevar loro gli altari, avessero tenuto distinti Timore e Paura.
Plutarco racconta che Teseo fece un sacrificio alla Paura, come gli aveva consigliato un oracolo, prima di sferrare un attacco decisivo contro il nemico.
E, leggiamo sempre in lui, Alessandro, alla vigilia dello scontro con Dario, celebrò alcuni riti misteriosi e offrì un sacrificio alla Paura.
Si può dire, forse, che la Paura sia tanto una Dea da onorare, quanto, in origine, la Madre di tutti gli Dèi. Così la intese Stazio:
“Primus in orbe deos fecit timor”.
La paura per prima creò nel mondo gli Dei”.
E poiché gli Dèi precedono gli uomini, si può dire che la Paura c’era già prima che tutto il Mondo fosse.

Anche per gli Gnostici il Demiurgo, Jaldabaoth, altro non era che Paura, e come tale, come “opera paurosa”, fu generato dalla Pistis.
IV- «Fu domandato a un anziano: “Perché ho paura, quando cammino nel deserto?”. “Perché vivi ancora”, rispose».
Il significato, profondo, crudele di questa sentenza non è affatto quello mistico della morte “nella” vita come unica condizione per guadagnare la vita dopo la morte, ma l’esatta, folgorante certezza, immediata, sensibile, che chi cammina nel deserto o procede nel buio, dovrebbe essere già morto o come morto, e solo la Paura, sentimento estremamente vitale, lo tiene in vita.
Tutte le narrazioni d’assalti di spettri o demoni introducono, in controluce, questo sospetto: che noi siamo Morti evasi dall’Ade e prestati alla Vita, e che per questo gli Spiriti che da lì provengono hanno potere su di noi, il potere di ricondurci lì da dove siamo colpevolmente fuggiti.
Ecco cosa ci rivela la Paura, quando insorge: che noi siamo in pegno, in questa nostra esistenza, e stiamo per essere “restituiti”. Un pensiero che siamo pronti a scacciare con ogni mezzo e ogni forma di distrazione.
Narra l’enciclopedista italiano Leopardi: “Volendo dopo cena tornare a casa, prendeano gli antichi dalla mensa un tozzo di pane, al quale davasi il nome di apomagdalia e lo recavano seco per preservarsi dai terrori notturni, che poteano sorprenderli per la strada”. Particolarmente temuti, per questi assalti, erano i trivi: almeno così dice Ateneo (nel Deipnosoph. lib. IV).

V- Nietzsche riteneva che ci fosse, nella fisiologia dell’uomo e della donna, e persino in quella degli animali, un “organo del Timore”: lo identificò con l’Udito.
Effettivamente il senso nascosto nell’orecchio è l’antenna che spalanchiamo in ogni situazione d’emergenza; ma porsi un ascolto è una precauzione fallace e rudimentale, perché presuppone che ciò ci fa terrore farà anche rumore. Mentre l’angoscia quando arriva incede, secondo il romanzo “R”, come uno “spettro di seta”: impercettibile.
Lo stesso Nietzsche, poi, sperimentava timori e tremori per l’approssimarsi di fenomeni essenzialmente “inaudibili”: cito per tutte la sua congettura dell’Eterno Ritorno, che in ultima istanza riusciva a atterrirlo. Questo pensiero era per Nietzsche il più terrificante, ma, ammette Jaspers, oltre lui non ha mai terrificato nessuno.

Per il raffinato Goethe, ogni Uomo è un Abisso, e basta concentrarsi su se stessi per sprofondare nella follia. Perché dentro ogni Essere Umano c’è, davvero, un Altro Mondo: “L’uomo è posto come reale in mezzo a un mondo reale ed è dotato di organi tali per cui può conoscere e produrre il reale e, inoltre, il possibile. Tutti gli uomini sani hanno la convinzione della loro esistenza e dell’esistenza di un mondo intorno a loro. C’è tuttavia nel cervello una macchia vuota, ossia un punto in cui non si rispecchia nessun oggetto, così come nell’occhio stesso c’è una macchiolina che non vede.
Se l’uomo concentra la sua attenzione su questo punto, se vi si sprofonda, cade in preda a una malattia mentale, presente qui c o s e d i u n a l t r o m o n d o, che però sono mostruosità e non hanno né forma né contorni, ma come vuoti spazi notturni spaventano e perseguitano più che Spettri colui che non se ne distacca”.
VI- M. de Savigny, il naturalista ottocentesco, aveva contratto fin da ragazzo una forma rara e terribile di cecità, per cui, se sugli occhi gli cadeva anche la più debole luce, ne provava una atroce sofferenza. Si rifugiava per questo in una camera oscura e, diffidente persino del buio, si proteggeva la vista con un velo nero e una maschera d’argento sul volto. Fin là dentro, però, era perseguitato da tormentose allucinazioni. Epifanie improvvise, che non toccavano solo la visione, ma tutti gli altri sensi: si sentiva strattonato, udiva urla e melodie sconquassanti, voci umane che cantavano, fischi acutissimi. Era anche soggetto, in aggiunta a tutte queste turbe già spaventevoli, a crisi che gli sconvolgevano il senso dell’odorato. per cui il suo olfatto era assalito di continuo da repentini miasmi fetidi.
Solo, mascherato, avvolto dalle tenebre, le dita affondate negli orecchi, le narici dilatate e offese, de Savigny viveva nella più cieca forma di Paura. L’Inferno che, si dice, attende i peccatori dopo morti, lo sperimentava già, da innocente, in vita.

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[in copertina: Karel Hlavacek, Il Demone nella Strada (1896)]