Ormai sono passati più di diciannove anni: il 23 aprile del 2005 ci ha lasciato Romano Scarpa, il migliore dei “Disney Italiani”, anzi l’unico vero erede di Disney, in tutto il mondo. Era un genio nell’escogitare storie, nel raccontarle, nell’animarle. Il Maestro veneziano aveva 77 anni: era nato il 27 settembre 1927. Ha firmato più di 400 storie di Topolino o Paperino, e inventato Brigitta – fidanzata di Paperone –, Trudy – la morosa di Gambadilegno –, Filo Sganga, Gancetto e l’indimenticabile Atomino Bip-Bip (personaggio di cui ho già parlato in questo sito).
Romano fino all’ultimo mi ha onorato della sua amicizia. Nell’occasione della sua scomparsa ho scritto di getto questo ricordo, che fu pubblicato da “il manifesto”.

Il lungo addio di Romano Scarpa è cominciato il giorno infausto in cui la mano lo ha tradito, e per la prima volta dopo innumerevoli anni, la matita debole non è riuscita a completare una tavola con gli amati personaggi. Il disegno era la sua vita. Creava poggiato su un minuscolo deschetto, tanto piccolo che passava inosservato, nei rari momenti in cui lo lasciava incustodito. Affacciarsi su quel tavolino, sui suoi fogli, sul suo mondo, dava però le vertigini. Dal nulla del riquadro bianco estraeva abbaglianti partiture visive, e soprattutto storie fantastiche ricche di inconfondibile humour. Aveva un “tocco” magico, che rendeva vive le sue favole. Pochi Maestri del Fumetto hanno saputo, come lui, incantare i lettori, anche giovanissimi, con intrecci meravigliosamente complicati, e coniugare suspense e sorriso, gag e avventura. Perfetta la sua padronanza dei meccanismi narrativi, perfetta la sintonia con i suoi “caratteri” – Topolino, Paperone, Paperino, Pippo, Gambadilegno, Gancio – di cui esaltava ogni sfumatura espressiva.

Romano era modesto, mite, spiritoso, ma sorretto da una saldissima dirittura morale. Sono parole sue: “Credo nell’onestà, nella rettitudine, nella giustizia; non esistono scorciatoie, i furbi non mi sono mai piaciuti”. Parole degne di un personaggio di John Ford, sullo sfondo della Monument Valley. Si riteneva un grande artigiano, proprio come John Ford, e come John Ford (ma certo con maggiore educazione e stupore) immagino cosa avrebbe replicato a un suo ammiratore – un Bogdanovich – che l’avesse chiamato “Genio”: “Cut!”, avrebbe detto, taglia qui!
No, non si può tagliare. I ricordi sono tanti. La riconoscenza, infinita.
Ovvio, che non voleva lo si chiamasse “Genio”. Ma lo era. Genio negletto naturalmente, assorbito e desaparecido in una catena industriale e in un marchio irresistibile – Walt Disney! – che triturando storie a grappoli, ha nascosto a tutti, per anni, il suo nome e la sua arte.

Romano Scarpa, ma solo agli inizi, ha accettato questo anonimato. Non che il suo scopo fosse quello di starsene tranquillo, e lavorare al riparo della notorietà con personaggi di sicuro successo. Quando disegnava le “sue” storie, non ha mai ceduto alla routine. Non si è ripetuto, non si è copiato, neanche per una singola vignetta. Piuttosto, era totale la sua adesione al mondo fantastico e morale della Banda Disney, allo “Spirito” che pervadeva i cartoni originali, quello delle Silly Symphonies, del Mickey scatenato degli esordi. Scarpa era un idealista, un Utopista Disneyano.
Walt Disney, una volta, sarebbe stato costretto a confessare: “Io sono Topolino”. Non gli prestava solo la voce, ma l’anima.
Credo che Scarpa, a maggior diritto, avrebbe potuto dire: “Io sono Walt Disney”. Lui era più autentico dell’originale, in certo senso. Infatti, non aveva nulla del lato affaristico, grand’industriale, lunatico, suscettibile, ipocondriaco, dell’ideatore dell’Impero dei Cartoon. Tutto, invece, del suo lato Sognatore.
Non stupisce quindi, se in qualche storia antica (come nella deliziosa “Topolino e il Mistero di Tapioco Sesto”), proprio quello abbia fatto: firmarsi più volte, dopo un certo gruppo di vignette, col nome stesso del suo nume tutelare, “Walt Disney”.


Walt non era un cannone, con la matita. Romano era prodigioso.
Prima di lui c’era stato il Topolino di Gottfredson, e il Paperino di Carl Barks; Topolinia e Paperopoli, due mondi distinti, distanti in modo assurdo, imbarazzante. E intanto Mickey Mouse sbiadiva nelle strisce quotidiane sui giornali, tramontava dai cartoni abbinati alle pellicole di prima visione. Romano Scarpa è stato l’unico, nel panorama internazionale dei disegnatori delle scuderie Disney, che abbia unificato quei due mondi, che li abbia rivitalizzati, che potesse dirsi continuatore, tanto di Gottfredson, che Barks. Il lettore cerchi, per prova, nella miriade delle ristampe, la saga di Topolino e Atomino, che si apre con “Topolino e la dimensione Delta”, e che prosegue con gemme impagabili come “Le Sorgenti Mongole”, “La collana dei Chirikawa”, “l’Imperatore della Calidornia”. o il “Bip-Bip 15”. Rintracci (oppure attenda l’inevitabile ripubblicazione) il suo racconto forse più famoso: “Topolino e l’Unghia di Kalì”. Insegua il “Pippotarzan”, “La fiamma eterna di Kaloa” o “Topolino e l’Ultraghiaccio”, molto più raro. Si appaghi dell’esilarante Paperino de “La leggenda di Paperin Hood”, “Le lenticchie di Babilonia”, “Paperino e la farfalla di Colombo”, o le “Paperolimpiadi” del 1988 (un tour de force di 250 tavole!). Ogni tanto adocchi la collana “i Maestri Disney”, che tributa a Scarpa numeri indimenticabili. Oppure, oppure… oppure: quanti potrebbero essere gli esempi. Ogni assaggio è riduttivo. Avvicinata una sua storia, si ritorna bambini, subito se ne vorrebbero leggere altre, e poi altre ancora, e poi, rileggerle.

Prima di lasciarci, ha avuto la soddisfazione di vedersi pubblicato, già come un “classico”, negli Stati Uniti.
Il prodigio è che Romano Scarpa sia riuscito ad ottenere certi risultati, dall’Italia, estrema periferia dell’impero-Disney.
Il “Topolino” italiano nasceva e rigogliava, a ridosso degli anni ’50, seguendo strade contrapposte alle sue: l’imitazione, la goliardia, un’esasperata comicità “fisica” dei personaggi, l’ “italianizzazione”, l’esagerazione “popolare” dei difetti corporali e delle debolezze umane.
Paperino mangiava “poponi” e si beccava uno sciame d’api nel di dietro. Paladino di questa versione “caricaturale” del mondo-Disney, era Guido Martina, capo degli sceneggiatori, anzi meglio, per anni, sceneggiatore-unico della rivista “Topolino” di Arnoldo Mondadori. Fu lui a inventare le “grandi Parodie”, con “l’Inferno di Topolino”, nel 1949. Martina era dotato di un grande talento, che andrebbe rivalutato e riscoperto (ho cercato di dimostrarlo in questo sito). Ma, come “autore”, era agli antipodi di Romano Scarpa. Faceva splendidi canovacci, e usava Paperino, Paperone, Gastone, come altrettante maschere della Commedia dell’Arte. Scarpa, che pure era veneziano, non apprezzava queste pantalonate, ed aborriva che il mondo mitico, ideale, di Walt Disney, venisse ridotto a una variazione sui “caratteri” che recitavano “a soggetto”.


Scarpa traeva le sue ispirazioni da una cosmografia lontana anni luce dall’italianissimo Topolino. Lo splendido “Paperino e la leggenda dello Scozzese Volante” nasce, per esempio, da una notizia di cronaca, di quelle che sarebbero piaciute a Charles Fort: a Tegucigalpa s’era verificata “una pioggia di sardine”. Il Maestro si ingegnò allora a costruirci intorno una storia “barksiana” in cui ci fosse un “peschereccio” volante – un galeone sollevato sopra le onde da un’antica maledizione – che facesse piovere le sardine dal cielo, e sopra vi pose, al comando, un antenato, ancorché vivo e vegeto, del tirchissimo Paperon de Paperoni.
“Paperino e il Colosso del Nilo” scaturì da un’altra di queste geniali intuizioni. Si discuteva, in quegli anni, sull’espediente giusto che potesse salvare i colossi egiziani di Abu Simbel, destinati a scomparire nelle acque, appena fosse stata costruita una diga intorno al loro sito. Scarpa ne prese spunto per un’avventura comicissima, in cui suggerì, per primo!, di segare le statue, ridurle a blocchi numerati, e ricostruirle a monte, dove le acque non sarebbero arrivate. Così fu fatto, alcuni anni dopo, e con maggior fortuna di Paperino, che rimontando male i blocchi numerati si trovò di fronte una ciclopica scultura astratta degna di Henry Moore.

Anche Romano Scarpa faceva “parodie”, ma il senso delle sue “rivisitazioni” era tutt’altro di quello in voga nella sua rivista. Se sono “parodie”, si vede subito che non hanno un preciso “originale” da copiare, da mimare, da sbeffeggiare. Sono parodie “complici”. In “Topolino e l’Uomo di Altacraz”, non si vede neppure un canarino, e il protagonista, contrariamente a Burt Lancaster, resta in prigione per una manciata di vignette. In “Paperin Hood”, come in “Paperino 3 D”, ad esser parodiata è la televisione; in “Topolino e il gigante della pubblicità” (storia tanto preveggente, quanto scomoda, perché non fu mai ripubblicata per trent’anni!), nel mirino della parodia c’è lo spot televisivo, onnivoro, fraudolento.

Con una simile collana di perfette creazioni alle spalle, parrebbe impossibile che Romano Scarpa si sia considerato, per decenni, quasi “in parcheggio”: si riteneva un filmaker, un realizzatore di “cartoni animati” prestato ai Fumetti.
Ricordo la sua soddisfazione quando riuscii a rintracciare, per lui, una vecchia copia del suo primo, vero, cartone animato: “La piccola fiammiferaia”, del 1951, musicato dal Quartetto Cetra. La rivide e, nonostante la distanza d’anni, e le difficoltà produttive di allora, lo inorgoglì che fosse un prodotto ancora presentabile e non privo di pregi.
Era pronto, in qualsiasi momento, a spiccare il volo verso ogni Disneyland che l’avesse chiamato per trasformare in film, o serie, i suoi progetti.
Aveva nel cassetto schizzi e modelli meravigliosi di “Chriscol”, storia di un indio che fa, al contrario, lo stesso viaggio di scoperta di Cristoforo Colombo, e approda in Europa nel 1492. Un’altra serie era – quasi – riuscito a realizzarla per la Rai, dopo che lo presentai al mio amico dirigente Max Gusberti: “Sopra i tetti di Venezia”. Una produzione che aveva ideato e per cui aveva a lungo lavorato negli anni ‘90, ma che non era riuscito a rendere, come voleva, una creatura “sua”.

ideato, diretto, coprodotto e disegnato da Romano Scarpa
La verità è che Romano Scarpa non ha mai smesso di fare il filmaker.
I suoi fumetti erano, sono, film. Non succedanei dei film, ma, mi si perdoni il neologismo (entrato poi nella Treccani, che ringrazio): antecedanei. Per un ragazzino, avvicinarsi alle sue storie, voleva dire sintonizzarsi su un mondo mitico in cui fumetto e cinema erano riconciliati in un ideale “archetipo” comune.
Il Topolino-James Stewart, devastato da un trauma infantile, della “Collana dei Chirikawa”, è più che una citazione. E “Il favoloso regno di Shan-Grillà” in cui Topolino combatte un viscido e bieco Pietro Gambadilegno annidato sulle montagne del Tibet, non ha niente da invidiare all’Orizzonte perduto di Frank Capra. E “Topolino e la Dimensione Delta” sopravanza per le sue invenzioni qualsiasi pellicola fantascientifica e post-atomica degli anni ’50.
Anche le sue ultime storie per il Topolino italiano sono omaggi al Cinema, in forma di piccoli film. Per giungere a tanta perfezione finale, il Maestro aveva maturato una lunga e sapiente evoluzione.

Scarpa voleva infatti che i suoi disegni fossero all’altezza delle sue vertiginose immaginazioni, ed era riuscito a sviluppare il proprio tratto, a modernizzarlo, al punto da scioccare i suoi ammiratori, già alla fine degli anni ‘60, e a non farsi riconoscere, quasi, dai più distratti. Non era affatto indulgente verso i suoi grandi “classici”, quelli degli anni 56-62, l’epoca dello “Scozzese Volante”, de “L’uomo di Hula-Hula” e di “Kalì”. Gli parevano involuti nel disegno, rigidi nelle chine. Non sopportava la sua arte fosse identificata con un periodo in cui il segno gli sembrava tanto inadeguato. Quando, negli anni, divenne padrone assoluto delle sue matite ideò e eseguì l’ultimo dei suoi grandi progetti.
Nel periodo 1989-1992, rimpicciolì il suo “sguardo” – ma non la sua ispirazione – e realizzò “strip-stories”, storie strette a strisce con Topolino protagonista, come nell’epoca eroica del fumetto. Tre o quattro vignette tenevano vivo l’intreccio, poi si chiudevano immancabilmente con una gag verbale o visiva. Queste favole definitive avevano titoli inequivocabili, come “Brigaboon”, e, l’ultima, “Minnotschka”. Vi rifulgeva il tocco di Lubitsch, la vena di Minnelli, lo spirito di Preston Sturges e del new deal rooseveltiano, come se solo il mondo-Disney e le sue creature potessero dirsene eredi. Ancora una volta: fumetto e film, riconciliati, pacificati, sorridenti, sognanti, insieme.

Romano Scarpa fino all’ultimo, ha reso accessibili ai ragazzi, ai più giovani, i segreti del grande cinema, avvicinandoci tutti ai meccanismi e all’essenza stessa della “narrazione per immagini”.
Non c’è solo il piacere del testo, in lui, ma vera “gioia della narrazione”.
La gioia che ci danno le sue tavole, non si spegnerà.
[in copertina: il Topolino anni ’50 di Romano Scarpa: da “Topolino Classic Edition”, edito da Panini]