Vivo, scrivo, in una città senza nome. “Nameless City”, l’ha denominata Thomas de Quincey.
Racconta Alberto Savinio (la fonte è Procopio): “si può dire che dal 400 al 423 l’impero romano d’occidente fu governato da un pollo”. L’imperatore Onorio (9 settembre 384 – 15 agosto 423), un citrullo inadatto all’amministrazione dell’impero, ma con il pallino della zootecnia, aveva dato il nome Roma alla sua gallina preferita. « Una sera gli vengono ad annunciare che Alarico e i suoi Goti hanno preso Roma. “Come!” esclama l’imperatore, “se poco fa le ho dato da mangiare con le mie stesse mani!” Gli spiegano che non si tratta della gallina ma dell’Urbe. “Me lo potevate dire subito!” replica Onorio, tirando un sospiro di sollievo ».

La confusione di cui fu preda questo sovrano pusillanime, fin troppo dedito alla cura amorevole del proprio pollaio-modello, appare oggi perdonabile, se si riflette sul rapporto magico e pericoloso che le parole istituiscono tra Nomi e Cose. Rapporto che può essere, come in questo caso, estremamente ambiguo. Tuttavia, un fatto è certo e storicamente attestato – e Onorio in quanto erede dei Cesari, doveva esserne per forza a conoscenza –: che “Roma” era sì, sicuramente, il nome del suo pennuto preferito, ma non era affatto, invece, il nome autentico dell’Urbe appena conquistata.

“Roma”, non è il vero nome di “Roma”. La Città Eterna, proprio come dice De Quincey, è rimasta, dal momento della sua fondazione, “senza nome”.
Il vero nome di Roma, infatti, “è avvolto nel mistero”: non lo si poteva “pronunciare neppure nei riti sacri”. Così Frazer.
E ancora Savinio: “Roma, altrimenti detta Amor e Flora, aveva un quarto nome pure, il più misterioso di tutti; e il segreto di questo nome fu custodito così bene, che nessuno lo ricorda più”.
Eppure il nome vero della città almeno una volta fu pronunciato, in pubblico: è un miracolo che di pettegolo in pettegolo non sia giunto fino a noi. Il sacrilego che lo rivelò, Valerio Sorano, contemporaneo di Cesare e Pompeo, secondo Plinio e Plutarco fu giustiziato tra lo sdegno generale.
Pochi segreti sono stati altrettanto impenetrabili e protetti, che questo. C’è un rapporto diretto e magico, tra il nome autentico di Roma, e la sua Fortuna. Finché non lo si conosce, finché non lo si “evoca” con propositi maligni, Roma non cade. Spiega il Calcagnini: “gli antichi romani sapevano bene quanto fosse nociva la loquacità. E non vollero che fosse divulgato il nome arcano della città, per evitare che i nemici potessero invocare gli dèi una volta che si fossero impossessati del nome”.

È probabile, però, che quel nome misterioso circolasse involontariamente, o a casaccio, tra i barbari che strangolarono la Capitale del Mondo nel quinto secolo, o – ancor più presumibilmente – tra i maomettani che sbriciolarono i domìni di Bisanzio, città che tutto l’Oriente, chiamava “Roma”. Quella, infatti, fu la Caduta definitiva.
“X”, il nome vero e incognito della capitale dell’Impero, forse era un nome astruso, complicato come una sciarada. Forse designava un’altra metropoli lontana nel tempo e nello spazio, o una persona d’oscura qualità, o un animale repellente e innominabile. Forse, si può persino ipotizzare, “X” era il nome d’un altro dei pennuti che razzolavano nel pollaio d’Onorio. Oppure, infine, era solo una combinazione di lettere inventate, quasi illeggibili, mai pronunciabili.
Qualche barbaro balbuziente visigoto, o qualche soldato della gihad maomettana, deve aver detto come per sbaglio o per gioco: conquistiamo “X”, massacriamo “X”, schiacciamo “X”. Ma “X” era anche il Nome fatidico e “segreto” della Città. Prima a Occidente, poi a Oriente, Roma – denominata, denudata –, cadde.

[in copertina: L’imperatore Onorio, di Jean-Paul Laurens (1880)]