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Il Vecchio della Montagna e il “Paradiso degli Assassini”

I- Narra Marco Polo che un misterioso tiranno asiatico, il “Vecchio della Montagna”, era solito narcotizzare con l’oppio i più gagliardi giovani della sua nazione, e poi farli risvegliare nel suo giardino incantato. Magnifici erano i chioschi, le serre, i divani e le creature vive che lo popolavano. Splendida era l’accoglienza riservata agli ospiti. In quel parco fiorito, solcato da torrenti di miele, latte e vino, bellissime donzelle in tutto degne delle Urì ultraterrene intrattenevano i giovanetti con aggraziati concerti musicali, danze seducenti, idilli campestri, amplessi profumati. Tutto trascorreva come in un sogno meraviglioso; come se, davvero morti, i ragazzi rapiti fossero giunti nel Paradiso vagheggiato dal Profeta Maometto.

Il Vecchio della Montagna era un eresiarca persiano di nome Hassan Ibn Sabbah: i suoi scopi non erano filantropici. Egli era malvagio. Non appena si erano abituati a quelle voluttà, i giovani venivano di nuovo storditi con gli stupefacenti, trascinati fuori dal giardino, e abbandonati in cupe contrade. Dopo molte traversie, giungevano di nuovo di fronte al Vecchio, che dominava sulle loro terre.

Racconta Polo: «Egli gli domanda: –  Onde venite? –  Rispondono: –  Del Paradiso, – e contegli quello che v’hanno veduto entro, e hanno gran voglia di tornarvi». Questo legittimo desiderio viene sfruttato dal tiranno per i suoi turpi progetti.
Egli vuole che i più robusti, i più valorosi, uccidano per lui. Il Vecchio, in cambio, promette loro di farli tornare in Paradiso. Di conseguenza, non esiste ostacolo che arresti i suoi infallibili sicari: massacrano i nemici, e lo fanno con piacere; oppure, se presi, invocano una morte subitanea – il martirio –, perché anche così credono di far ritorno nel Giardino delle belle Urì.
Secondo il viaggiatore veneziano, nessun nemico del tiranno scampava ai suoi messaggeri di morte, che furono detti appunto “assassini”, perché nutriti di hashish e paradisi artificiali.

II- Fanatico è, spesso, l’omicida: sempre, quello seriale.
Chi cerca legittimazioni allo sterminio, trova facilmente stimoli, inneschi, moventi, ripari nella propria Religione, Filosofia, Utopia.
La sola prospettiva d’un’Esistenza Ultraterrena è sufficiente, in certi casi, a disinfestare la Terra dagli esseri viventi, a renderla un deserto.
Una logica consequenziale arma il credente facinoroso, come il mite.

“Gli assassini”, dice Montaigne, “sono considerati fra i Maomettani gente di straordinaria devozione e purezza di costumi. Essi ritengono che il mezzo più sicuro di meritare il paradiso sia uccidere qualcuno di religione contraria. Per cui, disprezzando tutti i pericoli personali per un’azione così vantaggiosa, uno o due sono stati visti spesso, a costo d’una morte certa, presentarsi ad assassinare (noi abbiamo preso questa parola dal loro nome) il loro nemico in mezzo alle sue truppe. Così fu ucciso il nostro conte Raimondo di Tripoli nella sua città”.
Due sicari del Vecchio uccisero nel 1192 il marchese Corrado di Monferrato, a Tiro: si era travestiti da monaci e stavano giovialmente pranzando con lui e con il vescovo.

La setta colpiva in ogni occasione, a tradimento, ma sempre e comunque a viso aperto. Gli Assassini, ci ragguaglia lo storico dell’Islam Jevolella, “venivano educati alla filosofia sciita della taqiya, la dissimulazione“; grazie a questa disciplina, era loro facile e consono avvicinare le vittime, che erano di norma personaggi influenti e potenti, fingendosi “cristiani, o sunniti, o fedeli di altre confessioni”.

La setta degli Assassini era costruita intorno al Segreto, tanto che esso pare la vera ragione, il vero cemento, che teneva uniti i suoi adepti, più ancora che il desiderio di sangue.
Gli Assassini – sintetizza Canetti nel suo prodigioso Massa e Potere – ricevevano dal loro capo supremo un “ordine di omicidio” di cui nessuno doveva mai essere al corrente.
Anche quando l’ordine veniva eseguito, nessuno doveva sapere in quali circostanze fosse stato attuato. “La vittima era uccisa, e l’assassino poteva essere catturato per il suo crimine”, ma “ – il vero e proprio svolgimento del fatto non doveva mai venire alla luce”.

I mafiosi, mi paiono gli eredi perfetti di questa tradizione: che é infatti araba, e gli arabi dominarono in antico le loro terre. Essi poi aggiunsero a questo retaggio le eleganze proprie e i costumi dell’arte della dissimulazione, che é ben presente nell’indole italiana, anche rinascimentale (e la riscontri in Filippo Maria Visconti, in Machiavelli), e soprattutto cattolica (e quella trionfa con l’Inquisizione domenicana, col tartufismo e coi gesuiti).

Pierre Mejanel: Hassan ibn al-Sabbah, conosciuto come “Vecchio della Montagna”, ordina a due adepti di uccidersi per raggiungere il Paradiso

III- Il Vecchio della Montagna, sapeva astutamente esser generoso, e risparmiando certe vite eccellenti, otteneva talvolta di più che con cento delitti. Jevolella racconta che nel 1177 Saladino, sovrano d’Egitto e di Siria, svegliandosi nella sua tenda circondata da feroci guardie del corpo, trovò conficcato sul cuscino – a due dita dalla sua gola- un pugnale affilato lasciato lì dagli Assassini. Lo accompagnava una preghiera scritta, che pare la quintessenza di ogni messaggio mafioso, e che riassumo in questo modo: “voglia il Sultano esser clemente con Sinán, Vecchio della Montagna, e i suoi fedeli, così come questo coltello é stato clemente con lui”.
Saladino accettò il consiglio. Dieci anni dopo (che passò prosperosi, godendo dell’appoggio della Setta), entrò vittorioso in Gerusalemme, liberandola dei Crociati.

Su Sinán, fiorirono numerose leggende. Un marinaio di Cipro testimoniò che il corpo del Vecchio non proiettava ombra, e non si rifletteva su nessuna superficie. Inoltre, il Capo degli Assassini era in contatto continuo, mentale, telepatico, con i suoi fedeli.  

Dopo Hassan-ibn-Sabbah, che fu il primo signore della inespugnabile Fortezza di Alamùt, ci fu più di un “Vecchio”: il titolo divenne ereditario e trasmettibile per due secoli. Solo dell’ultimo, quello che capeggiava i fanatici prima dell’estinzione,  parla Marco Polo nel Milione.  Tale era il regime di terrore che il Vecchio e i suoi inarrestabili e invisibili seguaci avevano istaurato, che persino i re vicini pagavano un tributo per tenerli a freno. Finché il re tartaro del Levante, Alau, li sgominò tutti nel 1262.

La follia del Vecchio della Montagna dimostra quanto sia più facile simulare un Inferno che progettare un Paradiso.
Per questo il suo giardino incantato sparì presto dalla Storia. Mentre le atrocità e il terrore fanatico che patrocinava, sopravvivono saldamente fino ai nostri giorni.

Peter Johann Nepomuck Geiger: I sicari presentano al sultano la testa di Ali Pasha

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Adan Zzywwurath (Franco Porcarelli) giornalista, produttore, sceneggiatore di film, documentari e fumetti, ha pubblicato 5 libri.

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