
Per anni si erano lanciati insulti a distanza. Impedivano che il nome dell’Altro venisse fatto in loro presenza. Ognuno dei due riteneva di essere il più forte. Si rifiutavano di studiare le partite dell’Avversario. – Pattume- diceva Kobianski di Standler. Un millantatore, un copista – diceva Standler di Kobianski.
La verità è che il loro stile di gioco era completamente diverso. Kobianski era un romantico, un esteta, preferiva il gioco d’attacco. Standler il contrattacco e le “combinazioni geometriche, ossessive”.
Per un tacito accordo nessuno di loro si era mai presentato ai campionati. Finito il torneo, entrambi sfidavano il vincitore e ne avevano facilmente ragione. Portarli dietro la stessa scacchiera fu un’impresa ciclopica, preparata per lustri da un club di miliardari. Corse voce che i due campioni avrebbero ricevuto ciascuno, a prescindere dalle sorti dell’incontro, una cifra a 6 zeri. Non ci fu nessuno scandalo.
I due contendenti, attraverso i loro emissari, stabilirono che la tenzone si sarebbe esaurita in una sola partita, da giocare alla morte. Non sopportavano la presenza dell’ Altro più delle quattro ore previste dal regolamento per un unico incontro.
La sfida fu giocata in un hotel, e richiamò una folla straripante che, subito, Standler giurò prezzolata da Kobianski e Kobianski plagiata da Standler.
Un membro del club organizzatore si autocandidò come arbitro. Kobianski lo schiaffeggiò. Nessun altro si propose per l’incarico. I due sedettero allora uno di fronte all’altro.
– Nero o bianco?– chiese Standler.
– Nero – ordinò Kobianski.
Standier rifletté. Decise che giocare con il vantaggio della prima mossa, sia pure concessa in modo sospetto dall’Avversario, gli conveniva.
Ruotò la scacchiera e mosse un pedone. La partita era cominciata.
Fin verso la metà dell’incontro, i due offrirono il meglio del loro repertorio. Il pubblico applaudì a scena aperta la prima sortita del cavallo di re di Kobianski. Altrettanto fece per un sacrificio di torre di Standler, con la torre avversaria riguadagnata in due perfette, successive mosse.
Poi Kobianski sferrò un attacco imprevedibile e violento. Si accese una sigaretta, scese dal palco e andò a parlare con i cronisti.
Standler parò il pericolo in due minuti. Raggiunse Kobianski nella sala e gli disse, sfiorandolo con la punta del bastone:
– Tocca a Lei… È scacco al re –. Kobianski si stava già vantando di aver vinto.
Tuttavia, le sorti bianche precipitarono nel seguito dell’incontro. Standler fece un errore che i più giudicarono veniale, ma da allora giocò sempre in difesa.
In chiusura, il vantaggio di Kobianski era evidente.
Standler, inchiodato alla sedia, scoprì quello che tutti sapevano di lui da tempo: che era un emotivo, e non avrebbe sopportato la sconfitta.
Mentre studiava le contromosse, Kobianski girava tra il pubblico e riceveva applausi e complimenti.
Alla quarantanovesima mossa, Standler perse la torre. Colto dal panico, propose all’Avversario un immediato cambio di regine che lo indebolì ancora di più.
Sulla scacchiera c’erano ormai solo i due re, due pedoni per parte, torre e cavallo neri, un cavallo bianco. La posizione di Kobianski era fortissima.. Il giocatore nero scese di nuovo dalla pedana e annunciò che se Standler non avesse inventato una risposta geniale (cosa impossibile per quel damerino da strapazzo), avrebbe dato matto in sette mosse.
Ci fu, tra il pubblico, un mormorio soffocato d’ammirazione.
– Cialtrone! – tuonò Standler dal palco, e mosse il Re.
Kobianski riguadagnò la scacchiera visibilmente preoccupato.

Abbracciò con lo sguardo la nuova posizione e divenne pallido. Tra lo stupore generale, giocò, di seguito, tre mosse in difesa. Standler, imperterrito, continuò a spostare il Re. Kobianski, senza contropartita apparente, tentò di immolare1a torre consegnandola al cavallo bianco.
Standler mosse il Re. Terreo in volto, sudato, quasi rantolante, Kobianski infilò il suo re in un angolo della scacchiera, come cercando lo stallo. §Alla successiva mossa di Standler (Re bianco in F6), abbandonò palco, partita e platea.
Chiese il soprabito al guardaroba come uno spettatore qualsiasi e si gettò quasi sull’uscita. Il pubblico, interdetto, attese almeno cinque minuti, prima di applaudire Standler.
Il vincitore era rimasto a fissare la scacchiera.
La sua posizione era ancora debolissima, chiaramente votata alla sconfitta. Gli sfuggiva che pericolo vi avesse intravisto Kobianski.
La constatazione d’aver vinto senza sapere perché, di aver minacciato un “matto” che solo Kobianski era riuscito a prevedere, lo inferociva e lo nauseava.
Fu incerto se accettare il trofeo. Ma il pubblico pagante, quella sera, voleva acclamare un vincitore.

A casa, Standler rifece più volte la partita: avvampava di vergogna per la superiorità dimostrata da Kobianski. Il finale però, gli risultava sempre indecifrabile. Come il fatto che l’Avversario, contrariamente al solito, rifiutasse dichiarazioni alla stampa e vivesse da giorni nel più sordo isolamento.
Dopo un attento studio privato dello scontro, Standler cominciò a sospettare che l’abbandono di Kobianski fosse un estremo, beffardo oltraggio personale.
Compì allora un atto che, prima, l’avrebbe inorridito. Telefonò al Rivale. Che, naturalmente, si fece negare. L’umiliazione era atroce e superava gli insulti del passato.
Tre giorni dopo un giornale della capitale parlò apertamente di “truffa”. Standler non aveva solamente deluso gli appassionati del bel gioco: doveva perdere, senza discussioni.
Il trionfatore querelò il quotidiano. «Kobianski», scrisse, «si era accorto che stavo per mettere a segno una combinazione magistrale che l’avrebbe costretto alla resa».
Ma quella sera attese l’Avversario, nascosto nell’androne del suo palazzo.
Appena lo vide, Kobianski, il viso alterato da un’emozione incomprensibile, raggiunse di corsa la porta di casa e l’aprì, quasi forzandola.
Prima che dileguasse nell’interno, Standler infilò il bastone tra i battenti. – Perche hai abbandonato? – gli ruggì in volto.
– Vada via – lo implorò l’A1tro, dallo spiraglio, – non mi chieda nulla, vada via…
– Perché non hai piazzato la torre in F8, e non mi hai dato il matto? Temevi forse che spostassi il cavallo in G6? Ma anche se avessi parato in questo modo, non avevi cento combinazioni a tua disposizione, per inchiodare il mio Re? –
Il bastone si spezzò, sotto la mole di Kobianski e la sua disperazione. La porta si richiuse, seccamente.
Il giorno seguente Standler discorreva con il suo amico Templeton, valente scacchista.
– Ho ripetuto quella celebre partita almeno dieci volte – diceva Ternpleton –. Per due terzi è una delle vostre più belle. La fine è impenetrabile. Credo che Tu avresti vinto solo se il Re potesse, in questo gioco, dare scacco matto al re avversario.
Lo stesso amico gli rivelò con noncuranza che Kobianski era irriconoscibile dal giorno dello scontro e che, a quanto pareva, non vedeva l’ora di salpare dalla Francia e trasferirsi in qualche nazione lontana. Sarebbe partito infatti l’indomani, per destinazione ignota.
Standler si infuriò. Non poteva permettere, disse, che quel cialtrone scappasse senza aver chiarito pubblicamente il mistero della sua resa.
Venuto a conoscenza del piroscafo che avrebbe fatto espatriare il nemico, Standler l’attese sul molo.
Vide avvicinarsi la vettura di Kobianski. L’auto si fermò in una zona d’ ombra. Kobianski scese, fece pochi passi verso l’imbarcadero, poi si voltò e, trascinandosi dietro il bagaglio, deviò, quasi correndo, verso il centro della città. Aveva visto Standler.

Trafelato, penetrò nel labirinto di viuzze. Standler lo seguiva da presso, implacabile. Kobianski abbandonò il bagaglio. e accelerò, slanciandosi nello scarno sentiero di un vicolo. Ma era troppo grasso. Standler lo raggiunse al centro di una Piazza. In quel momento l’orologio della torre segnava mezzogiorno meno due.
– Adesso basta! – imprecò Standler –, esigo delle spiegazioni! –.
Kobianski era percorso da un tremito, ansimava, roteando lo sguardo sul selciato. Trasse di tasca il portafogli. – È la mia quota per l’incontro – sussurrò –, la prenda Lei, purché non se ne parli più!
– Eh, no, sarebbe troppo comodo, dopo che mi hai reso ridicolo! Perché, perché hai abbandonato?
– Mi lasci andare… Mi lasci andare, La prego…
Standler era armato. Lo minacciò con una pistola. A quella vista Kobianski cedette. Il suo corpo grasso gli crollò quasi addosso, gli abbracciò le ginocchia.
Non per il pericolo, ma per il ribrezzo, Standler fece fuoco.
Volò via un gruppo di piccioni. Due guardie a cavallo spronarono i loro destrieri, uno bianco e uno nero, verso il centro della piazza. Una ragazza perse i sensi. Tre passanti la soccorsero. L’orologio della torre batté il mezzogiorno.

Standler fu condannato alla ghigliottina. Il dibattito fece scalpore, ma il processo fu assai breve.
La sera prima dell’esecuzione, ricevette nella sua cella l’amico Templeton.
Che gli disse: – Ho studiato il tuo caso sulla scacchiera. È evidente che Kobianski abbandonò perché, con il suo intùito d’esteta, vi aveva visto improvvisamente il teatro della sua morte. Una torre, due cavalli, quattro pedoni e due Re, che hanno giurato di darsi battaglia fino al limite estremo.
[il racconto “A Oscar Wilde” non vuole esser altro che un “plagio” dedicato a chi, fino all’infamia, venne accusato di “plagio”. Si trova nella silloge Diario della Letteratura Perduta, di Adan Zzywwurath. Ma trovarlo è già un’impresa]










