Un metodo difficilmente contestabile, non dico, per abolire la povertà su questo nostro pavido Pianeta, ma comunque per attenuarne gli effetti più devastanti tragici e mortali, è: che i più ricchi, soprattutto i super-super ricchi – Nazioni, famiglie, Imprese, o singoli che siano – cedano parte delle loro sterminate ricchezze a chi ha più bisogno. E creino, col concorso attivo dei loro beneficiati, le condizioni perché nessuno sulla Terra abbia più a soffrire la fame, le carestie, le epidemie, o anche quelle semplici malattie che tra i benestanti oggi fanno sorridere, tanto è facile venirne a capo, ma che tra i poveri mietono invece vittime, a milioni. Si chiama, quest’attitudine: Carità? Poiché la parola in questione è entrata nel novero di quelle da evitare, si potrebbe utilizzare un termine del quale meno ci si vergogna. Per esempio: “distribuzione equa delle risorse economiche planetarie”, o qualcosa del genere. Naturalmente, per ottenere qualche risultato, dovrebbero essere i governi dei Paesi più abbienti a darsi da fare. Nazioni per esempio che in tempi moderni hanno sfruttato lo schiavismo e il colonialismo per progredire, spogliando e depredando interi continenti, e che poi hanno fatto il beau geste di chiedere scusa, senza aprire però il portafogli per versare qualche significativo indennizzo.

A View in Dusky Bay, New Zealand di William Hodges (1773)
Non ho intenzione di snocciolare su un argomento così importante e spinoso un sermoncino, neanche troppo originale, per giunta. Dico solo che arrivato alla mia età sento anche il bisogno di ascoltare o riferire semplici ricette che possano migliorare la qualità della vita di tutti.
Non voglio neppure sostenere che i Ricchi non abbiamo mai aiutato i più bisognosi: alcuni, o molti, lo fanno continuamente, anche se, troppo spesso, in un regime di clandestinità che i più approvano e applaudono (e non ho capito perché: evidentemente un pudore esagerato accompagna i “buoni esempi”). Però ci sono sempre stati anche Ricchi che si prendono gioco dei Poveri, anzi, che proprio “giocano” con loro. Qualche esempio l’ho già fatto, parlando dei “Falsi Sogni”, in questo sito.
Ma vorrei aggiungere oggi un racconto che sembra veritiero e che trovo nelle Tracce di Ernst Bloch: sperando che qualcuno – io non ci sono riuscito – ne tragga poi la “morale” giusta.
DIAVOLO POVERO E DIAVOLO RICCO
di Ernst Bloch
«È curioso che chi ha denaro a sufficienza talvolta diventi buono, e contento che anche il suo prossimo abbia qualcosa e si figuri per lui qualcosa di bello.
Ai ricchi piace giocare, e mettono in gioco i poveri. Come quell’americano che bandì un concorso molto singolare. Si richiedeva un giovane, preferibilmente un minatore, in buona salute e disponibile. Tra centomila concorrenti ne fu scelto uno; il giovane si presentò. Un bel ragazzo, non doveva fare nient’altro che soddisfare le altre condizioni: avere delle buone maniere a tavola, vestirsi con eleganza, saper stare tra la gente.

Un precettore gli insegnò la mondanità, l’equitazione, il golf, l’arte della conversazione colta con le signore e tutto quanto è necessario a un gentleman americano. Tutto questo con il denaro del suo protettore; finito il periodo di dirozzamento, il fortunato intraprese un viaggio di tre anni intorno al mondo, lettere di credito in tasca che gli permettevano di soddisfare qualunque desiderio, fosse anche esotico. Non restava più che una piccola condizione: dopo il viaggio, il giovane sarebbe dovuto tornare in una miniera, come se nulla fosse stato. Ci sarebbe dovuto restare almeno per 10 anni, minatore come prima.
L’uomo nato con la camicia aveva sottoscritto anche questo, accontentandosi della vita che gli si offriva nell’immediato; iniziò l’epoca della gioventù dorata. Viaggiò attraverso gli splendori da teatro d’opera d’Europa, ebbe fortuna con le donne, rivelandosi dotato, andò a caccia della tigre indiana e a pranzo con il viceré; insomma, condusse una vita principesca, con in più il contrasto con la vita precedente. Fino al giorno in cui tornò a casa, quasi sazio di piaceri e ringraziò il suo benefattore come si prende congedo da un ospite. Infilò di nuovo i vecchi vestiti, ridiscese in miniera, ritrovò il carbone, i cavalli ciechi, i compagni che gli erano divenuti estranei e che lo disprezzavano.

Ridiscese in miniera – difficile immaginare primi giorni, i primi mesi, il riflesso del passato e il contrasto del presente, la discesa le prime luci dell’alba, il carico sulle spalle, il sudore, la tosse, la polvere negli occhi, la porcheria di cibo, il letto a tre. Certo il giovane avrebbe potuto rompere il patto; con le buone, cercando un altro posto, o da rivoluzionario, diventando dirigente operaio.
Invece si mise in sciopero, andò a New York, si recò presso il suo benefattore, e lo uccise.
Il tribunale mostrò post festum comprensione per l’operaio: fu assolto».
[in copertina: “Una carità”, di Lawrence Alma-Tadema (1883)]