I- Friedrich Nietzsche, filosofo, “cervello immenso” come dice Cechov nel Giardino dei ciliegi, finì impazzendo la sua vita, senza peraltro rinunziare a una certa grandezza di intenti e persino a un avanzamento sociale.
Nietzsche, riteneva di detenere una sorta di primato in tema di onoranze funebri, i Funerali da Vivo: “L’autunno scorso ho assistito a due riprese e senza ombra di stupore al mio proprio funerale, la prima volta col nome di conte Robilant (no: è mio figlio, nei limiti in cui, infedele alla mia propria natura, io sono Carlo Alberto), la seconda volta col nome di Antonelli”. Frasi desunte da una lettera torinese, indirizzata a un professore di Basilea, che cominciava così: “Io, per me, mi sono riservato una cameretta da studente di fronte a Palazzo Carignano (nel quale io sono nato col nome di Vittorio Emanuele)”.
Credersi Re d’Italia non gli era sufficiente. Nella stessa lettera, indirizzata a Jacob Burckhardt e datata 6 gennaio 1889, sostiene infatti di essere, suo malgrado, Iddio:
“Caro Signor Professore, preferirei, non lo nego, fare il professore a Basilea, piuttosto che esser Dio”, scrive: ma quel che può sembrare a prima vista un’iperbole, un paragone spiritoso e azzardato, era realtà.
Nietzsche si credeva effettivamente Iddio, e rimpiangeva la cattedra. In quel momento, vedeva scivolar via la vita “normale”, non il Pensiero.
Così continua l’epistola firmata dal filosofo: “… ma non me la sentivo di aguzzare il mio egoismo privato fino al punto d’abbandonare la creazione del mondo“.
Sforzando il Pensiero oltre le vette della Conoscenza, i filosofi talvolta ne sfondano le barriere: le case di cura li accolgono, allora, premurosamente.
Per millenni c’é stata una debole scienza dei folli. Quando finalmente psichiatria, psicologia e psicoanalisi cominciarono ad occuparsi seriamente e scientificamente dei pazzi, il progresso fu evidente. Tuttavia, spesso sembra che queste discipline si fermino sul più bello: riferiscono la follia all’individuo, come se ciò che dice o fa o pensa il folle rivelassero solo qualcosa di lui e della sua particolare malattia, e persino della società che gli sta attorno. Ma c’è qualcosa di importante, se non decisivo, che resta fuori da questo quadro “clinico”. A noi interesserebbe sondare quanto il “demente”, nella sua particolarissima condizione, dice o conosce del mondo: cioè il suo lascito “oggettivo”, la sua scienza peculiarmente “folle”.
Come affermava Justinus Kerner, “quando certi fenomeni vengono sempre attribuiti alla follia, non vengono più studiati”.
La preoccupazione di questo grande medico romantico, però, era dimostrare che certi pazzi non erano pazzi. Noi invece vorremmo rispettarli in quanto tali. Cioè come Maestri, almeno potenziali. Tasso, Van Gogh, Artaud, Raymond Roussel, erano di questa schiera.
Si é detto che le ultime poesie di Hölderlin, composte in pieno turbine mentale, erano inferiori alle altre, ma si trattava di un pregiudizio, e non si poté dimostrarlo. Anzi, il ciclo finale delle sue liriche – quello siglato non col suo nome, ma con lo pseudonimo “Scardanelli” –, ha ispirato musicisti di vaglia, e stimolato i critici e i saggisti più acuti. Si é detto che quanto Friedrich Nietzsche ha scritto, dopo la folle crisi di Torino, non aggiungeva nulla alla sua filosofia. Come se la demenza non fosse una forma, sia pur diversa, di Pensiero: chi può dimostrarlo? E Pascal, il quale, secondo Voltaire, “vedeva sempre un precipizio accanto alla sua poltrona”, era forse meno autentico, meno sofferente, meno religioso, quando divenne completamente pazzo?
Si ammetta: è rarissimo trovare un pensatore, un filosofo, uno scienziato, che, divenuti folli, contraddicano radicalmente le loro idee o le loro scoperte da “sani”. Tant’è che Cesare Lombroso, per spiegare la circostanza, ricorse a questa soluzione: che un Genio, in fondo, è sempre stato un malato di mente, fin dai suoi esordi. Sosteneva, il buon Cesare, che “v’hanno tra la fisiologia dell’uomo di genio e la patologia dell’alienato non pochi punti di coincidenza“. E invece molto spesso, infranto l’ultimo barlume di “lucidità”, l’Uomo o la Donna di genio, qualsiasi fosse il loro campo di impegno intellettuale, dimostrarono nella dissennatezza un vero desiderio di progredire, di andare avanti sulla stessa strada già intrapresa, piuttosto che negarla. Come se la Pazzia fosse l’unico modo di rompere il sigillo che impediva loro di attingere le ultime verità.
Certe sentenze dei Frammenti Postumi del “mentecatto” Nietzsche dimostravano appunto che il filosofo stava tentando di trarre le conseguenze estreme, fossero pure “alienanti” e da alienato, delle proprie teorie. Non si può negare che il filosofo tedesco sia approdato alla sua condizione finale cercando (e pensando d’aver trovato) una Clavis Universalis in grado di spiegare Tutto. Tale era già, probabilmente, la sua idea di “Volontà di Potenza”, mai compiutamente sistematizzata e troppo spesso fraintesa.
Andrebbero dunque, tutti i suoi scritti, presi sul serio: come hanno fatto, in parte, Martin Heidegger e quei pensatori che hanno seguito la sua lezione.
Quanti, invece, tra gli intellettuali cosiddetti “sani”, “normali”, o pretesi tali, a un certo punto della loro vita hanno fatto dietrofront, si sono “convertiti” a nuove idee, hanno stracciato ogni credenza o sicurezza precedente? Per non parlare di quei savissimi ingegni che hanno bruciato le loro carte migliori, o preteso che gli amici lo facessero al posto loro.
Con ciò non voglio affermare che dobbiamo studiare tutte le opere di tutti i Mattoidi, e prenderci la briga di confutare le loro esagerazioni. Ma non possiamo neppure ignorare, per partito preso, quello che i pazzi, possono insegnarci, anche nel campo della Logica, e di ciò che essi intendono per Causalità. In questo campo, quello della “Scienza dei folli”, si può dire che non abbiamo compiuto progressi significativi, dal principio dell’Ottocento.
Il 3 gennaio del 1889, nella settimana precedente il suo primo ricovero, a Basilea, in un asilo per alienati, Nietzsche a Torino aveva abbracciato un cavallo, vedendolo soffrire e piegarsi sotto le frustate del suo padrone, un vetturino. Non va interpretato, quel gesto, come una forma esasperata di donchisciottismo. Forse la follia avvicina l’Uomo all’Animale, ma in senso, a volte, totalmente spirituale: innescando un’immediata, naturale, compartecipe “comprensione” tra Specie.
Ritrovo questa suggestione in un testo-chiave, indispensabile per comprendere le implicazioni della tematica, come La storia della Follia di Michel Foucault: «”Io credo”, dice Cipriano, l’eroe di Hoffmann, “io credo che proprio coi fenomeni anormali la Natura ci consente di gettare uno sguardo nei suoi più temibili abissi; e in realtà nel cuore stesso dello spavento che spesso mi ha preso in questi strani rapporti coi folli, sorsero molte volte al mio spirito delle intuizioni e delle immagini, che gli dettero una vita, un vigore e uno slancio singolari”. Con un semplice movimento, il folle si dà come oggetto di conoscenza offerto nelle sue determinazioni più esteriori, e come tema di riconoscimento, investendo in compenso colui che lo comprende di tutte le familiarità insidiose della loro comune verità. Ma la riflessione, diversamente dall’esperienza lirica, non vuole affatto accogliere questo
riconoscimento. Essa se ne protegge, affermando con insistenza crescente che il folle è soltanto una cosa, e una cosa medica. E il contenuto immediato di questo riconoscimento, ripartito così alla superficie dell’oggettività, si disperde in una moltitudine di antinomie. Ma non inganniamoci; sotto la loro serietà speculativa si tratta proprio del rapporto dell’uomo col folle, e dello strano volto che assume ora le qualità dello Specchio».
[in copertina: Don Chisciotte contro i mulini a vento, di José Moreno Carbonero (circa 1900)]