
I– È nel naufragio che si conosce il Mare.
Perciò: la quintessenza d’ogni pittura marinara è l’ex voto.
Tutto lascia presupporre che questo tipo di figura o illustrazione sia stato inventato dall’ingegno umano assai prima che nascesse l’arte di dipingere paesaggi marini, trascelti solo per la loro “bellezza visiva”. Al principio, non c’era il panorama.
Diagora di Melo, fiorito – ma in fama di jettatore – nel V secolo a.C., era universalmente noto come ateo. Un giorno, a Samotracia (l’episodio è riportato da Cicerone, nel suo trattato Sulla Natura degli Dèi), «così fu interpellato da un amico: “Tu che ritieni che gli dèi si disinteressino delle vicende umane, non ti accorgi, osservando le tavolette votive, quanti uomini in seguito alle loro preghiere sfuggirono alla violenza della tempesta e giunsero salvi in porto?”.
“È proprio così, rispose Diagora “dato che in nessun luogo poterono farsi dipingere quelli che fecero naufragio e perirono in mare”».
Siamo cinquecento anni prima di Cristo, e quella di ritrarre i naufraghi in attesa d’una grazia divina non sembra neppure una moda recente.
Purtroppo, dei Greci non c’è rimasta la pittura, se non come ombra – appena pochi esempi; ma qualche “pinakes” sbalzata nella terracotta, qualche bel vaso istoriato, frammento o copia della loro scultura “marinara” sì, li abbiamo visti. E ciò che evocano le loro “vedute” è, per solito, mostruoso.
Laocoonte che si sbraccia sulla riva, Scilla che latra, Cariddi che vortica, e tutti gli altri Tèrata beffati da Odisseo… Persino la bella Afrodite, “spuma di mare”, emerse dall’onda in un’aura di tregenda, come ex-voto a se stessa: Dea da pregare, venerare, e nel contempo orfana e naufraga, lei, sorta dal rosso schiumeggiare che accolse il fallo reciso di Urano…

Afferma Plutarco, che il mare stesso, tutto il mare, “è la lacrima di Saturno”.
Il punto di vista genuinamente “marino”, allora, mi pare, è sempre quello: da vittime, o da scampati. All’inabissamento, alla catastrofe mitica, all’attacco infero.
II– Negli ultimi duemila anni la forma ex-voto non si è evoluta, tra i cristiani, e può riassumersi così: nella parte inferiore del dipinto c’è il mare – decisamente in burrasca. Tra le onde, un uomo – quasi sempre –, o una donna, meno spesso – che annega; o una nave che già protende la chiglia per sprofondare nei gorghi; oppure una barca, popolata da uno o più disgraziati che boccheggiano. Nella parte superiore il quadro è illuminato da una coccarda luminosa al cui centro compaiono: una sola persona della Trinità (Gesù, difficilmente le altre due), oppure la Vergine (da sola o col Figlio), oppure uno o più Santi, oppure un angelo qualificato (angelo custode, Arcangelo).
Quello squarcio tra le nubi disperate è l’effetto-laser della preghiera puntata dai derelitti contro il Cielo.

III– All’origine della pittura marinara, subito dopo l’ex voto (ma con la stessa ammirazione per l’intervento divino nella Storia), porrei la rappresentazione del mare come teatro delle grandi battaglie navali. Il mare solcato da armi e galee, il mare che rimbomba di tamburi che danno il ritmo ai rematori forzati, che ruggisce di catapulte gravide di proiettili, che si infiamma di fuoco bizantino, che stride di rostri che penetrano e squarciano gli scafi. Evocare tutto questo era molto facile anche per il più rozzo degli artigiani antichi: poche silhouette di triremi da guerra che si fronteggiano – in barba alla prospettiva – come disegni infantili. E, come accade alle figure tratteggiate dai bambini, il commento sonoro era in qualche modo incorporato.

IV– Tragedie e guerre si addicono al mare.
Il fiume è dei mercanti, il mare è dei pirati. Si riconosce subito una cultura fluviale, e come e quanto si discosta da una marinara. Basti pensare alle pitture murarie egizie, ai loro tiepidi vascelli – sembrano fatti di carta pergamena –, che placidamente discendono il Nilo.
Plutarco racconta che “i sacerdoti d’Egitto abominano il mare, […] non usano il sale a tavola, non salutano piloti né marinai, perché vivono sul mare […], e, tra i geroglifici, il pesce denota odio e abominio”.
Incanalato nella corrente del fiume, il commerciante, il notabile egizio, il ministro del culto conservano ogni potere, ogni privilegio dovuto al sopruso. In mare, invece, persino il Re può essere assalito, incatenato, rapito, da predoni meglio equipaggiati e armati delle sue navi.
Il mare sospende ogni diritto. “Acque internazionali”, le chiamano adesso: ma è solo un segno che la pirateria non può essere estirpata – che, entro certi limiti, può essere impunemente esercitata anche oggi.

V- È vero: ci sono persone che, invitate a parlare del Mare, parlano solo del Mal di Mare – l’ha notato, per primo, mi pare, proprio Chesterton. Ma un lungo viaggio in nave, una crociera a vela senza l’assillo del tempo, conservano per tutti un fascino remoto d’avventura; mentre un tragitto altrettanto lungo, in treno, sull’Orient Express, sulla Transiberiana, sulla linea per Madras o per Shangai attira ormai solo i turisti condannati all’etnologia e i mistici dilettanti con le terga e con lo stomaco di ferro. Per non parlare dei viaggi transcontinentali che si compiono inscatolati per ore dentro Jet elefantiaci. Dopo averla assaggiata su un volo interminabile, a novemila metri d’altezza sull’oceano, si comincia a dubitare che l’Eternità sia tra le aspirazioni più profonde e durevoli dello spirito umano.

VI– Le credenziali bibliche sono pessime.
In Giobbe (12, 7) il Mare è un Mostro, e come tale va tenuto a guardia. I Salmi e Giovanni ce lo rappresentano come la casa del Leviatano, padre archetipo di tutte le creature più diaboliche.
Dappertutto, nella Bibbia, quando Dio è ostile all’uomo, evoca il Mare per spaventarlo, o minaccia naufragi e inondazioni per atterrirlo. Il Mare s’erge come ostacolo agli Ebrei in fuga dagli Egiziani: è il limite d’ogni speranza. Per accedere alla Terra Promessa, non bisogna navigarlo, ma evaporarlo, spaccarlo in due con un’invisibile ascia divina.
L’Apocalisse (XXI, 1), maledice: nella Terra salvata e rinnovata dal secondo avvento di Cristo, non ci sarà posto per il Mare. Perché tanto odio? Perché Giovanni, che si può specchiare a Patmos in quello coloratissimo dei Greci, disprezza tanto il Mare? Dubito che sia solo perché il Santo non sa nuotare.
Al nostro quesito risponde, forse, quell’altro verso ebbro, che, sempre nell’Apocalisse (XX, 13), vaticìna: “Il Mare restituirà i Morti”…
Il Mare è, per l’uomo mediterraneo che si affaccia con orrore sulle sue bellezze, un insaziabile, immane “Obitorio sommerso”.
Il Mare è la più grande cosa morta che si muova. Lo solcano fantasmi di velieri e spettri di balene. Lo infestano, nelle profondità più inaccessibili, gli ossari di miriadi di navigli inabissati, i resti di milioni di affogati.

VII– L’esatto contrario di quanto si vede festeggiare negli ex-voto è la tragedia incomprensibile dell’annegamento.
Se il salvataggio divino non ha funzionato, cosa succede?
Le creature affondano, soffocano, vengono risucchiate nell’abbraccio di una placenta innaturale, giù, sempre più giù, nell’indifferenza del pesce, della seppia, di cui mimano il destino rovesciato. Stavolta è il Mare che prende noi nella sua rete.

Un vasto Purgatorio, senza pace, attende gli affogati.
Se non riaffiorano, essi non otterranno mai una onorata sepoltura cristiana – quindi, le cronache e le tradizioni dei Paesi cattolici si sono spesso occupate di loro con trepidazione. Indegni del riposo eterno, questi morti – si dice –, come larve, come fuochi, appaiono sulla tolda delle imbarcazioni, per mendicare una prece.

È persino peggio quando il Mare restituisce i loro corpi. Accade, raramente. Non è superstizione: certi annegati, tirati a riva cadaveri, issati sul ponte di navi o pescherecci, mostrano, sull’epidermide, l’impronta viva di una mano.
Il fatto, in sé raccapricciante, ha trovato una spiegazione leggendaria, ancora più orrorifica.
Quando un uomo o una donna affogano, e gridano, annaspando tra i flutti, attirano qualcuno, un Abitatore delle Acque, che ha forma umana. Costui li attanaglia, con una presa tanto ferrea da lasciare un’orma profonda sulla loro pelle; poi, così artigliate, trascina le sue vittime nella fossa di mare più profonda.
Giunto laggiù – dice la credenza popolare –, quest’orrido tritone svuota i suoi cadaveri: estrae da loro l’Anima immortale, per riporla in certi vasi capovolti, da cui nessuno spirito potrà mai più sfuggire. I corpi inanimati, invece, li lascia andare e piano piano, quelli risalgono, leggeri, in superficie.
Secondo le tradizioni più squisitamente marinare, l’Uomo d’acqua, il ghermitore e custode d’annegati, è un Vecchio senza Testa. Così che si ha un bel scrutare il Mare, con apprensione o angoscia, nell’ansia di vederlo apparire durante le sue imprese. Pur essendo perennemente in agguato, presente e prossimo al punto che potremmo udirne il respiro affannoso, il Vecchio non si mostra mai ai testimoni; perché nulla di lui emerge dalla superficie delle acque. L’Uomo è senza testa.
A volte, favoriti dalla luce tagliente, ci pare di veder affiorare dai marosi la sua mano avida e unghiuta. Ma è un’illusione.
Come è avvenuto che, essendo privo di lineamenti, il Pescatore d’Affogati sia stato riconosciuto anche come “Vecchio”, è un cospicuo mistero.

VIII– È probabile – lo apprendiamo da Alberto Savinio (Nuova Enciclopedia) – che “Mare”, nel significato originario, voglia dire “cosa morta, dalla radice Mar, morire”, in sanscrito Maru , che di solito va tradotto con “deserto”.
L’etimo congiunge quindi i due estremi, la massa diluviante d’acqua degli oceani, e le sterminate, desolate regioni del pianeta prive d’acqua; il mare senza sabbia e la sabbia senza mare.
Entrambi “deserti” di uomini e vita “in superficie”, e quindi: analoghi, simili al mondo infero della morte, che tutto inghiotte e occulta nei suoi abissi.
Il Mare come le dune di polvere – ustionate dal sole, scheggiate dal vento incessante –, è fonte di miraggi, di illusioni; come la sabbia mobile è subdolo e invitante. Quando si apre? Per accogliere nelle sue viscere gli affogati, per digerire zattere e relitti, per vomitare mostri sulla costa. Il mare tutto spazza, ingurgita, spolpa e ripulisce, proprio come la morte: e se fosse per lui, proprio come la morte, non restituirebbe nessuno.

IX– Tra tutti gli epitaffi che ingombrano l’epigrafia antica, mi è particolarmente caro uno, in forma di preghiera, con cui, mentre la sua nave colava a picco, un marinaio punico nobilitò i suoi ultimi istanti. Lo trovo citato in Borges (Sette Notti).
Dice: “O Madre di Cartagine, restituisco il remo”.
È anch’esso un ex voto, ma stavolta l’uomo, che tra poco lascerà la vita, non si rivolge ad altra Divinità che non sia il Mare. Per placarlo e chiedere quiete, non salvezza.
Socchiudiamo il Libro del Tao, per leggere: “Quando le creature hanno avuto il lor rigoglio, / ciascuna fa ritorno alla sua radice. / Tornare alla radice è quiete, / il che vuol dire restituire il mandato, / restituire il mandato è eternità” […]
Fino allora saldo nelle correnti, impavido nelle tempeste, vigoroso nelle bonacce, il modesto marinaio di Cartagine ha governato il suo destino mulinando e timonando il remo dove la propria volontà o quella del padrone lo portava. Ma adesso, morendo, rende le insegne e accetta la deriva.
“Abbandonati al mare senza la nave, il mare ti dirà che cosa sei” – ha verseggiato ‘Attar, nel suo Poema Celeste.
È lo stesso compito sovrano, credo, che ha la Morte, per tutti noi.

Rudyard Kipling, With the Night Mail: A Story of 2000 A.D.
X– Più misericordioso della Cristianità, crede, l’Islam, che il moto del Mare equivalga a una preghiera, incessante, che esalta il Signore Iddio.
Per questo, immagino, è così difficile rappresentare il Mare in una pittura che non sia, anche, un ex voto.
O in un racconto che non sia, anche, soprannaturale.
E, in casi obbligati, un racconto dell’Orrore.
Adan Zzywwurath – alias Franco Porcarelli
(autore de “Il Matrimonio del Mare e dell’Inferno”)
