Monica Lanfranco è giornalista, formatrice, attivista direttora della rivista Marea, fondatrice del centro femminista “Altradimora”, Le ho posto due domande e chiesto, se possibile, di introdurci alla “diversità” della “Fantascienza delle Donne”, una materia che legge, e studia, da decenni.
A.Zz: Uno degli slogan indimenticabili del 68: “la Fantasia al potere”; ma era uno slogan (e quindi una Fantasia) soprattutto maschile?
Monica Lanfranco: Direi che forse lo slogan più indicativo dell’epoca fosse “una risata vi seppellirà”: più che di fantasia, che certo è stato elemento importante, però più legata al versante del simbolico, mi sembra che si volesse ancora una volta ‘dare corpo’ in modo emozionale alla volontà politica di cambiamento. Per nulla in maniera fantasiosa, ma molto molto concretamente.

A.Zz: La Fantasia, nelle donne, è diversa da quella maschile? In cosa pensi che si distingua soprattutto (anche al di là della Letteratura)?
Monica Lanfranco: Come ha ragione Ida Magli, antropologa e studiosa mai allineata, a richiamare la centralità del corpo: “Il proprio corpo come strumento simbolico è, forse, la realtà più sconvolgente nella vita di una donna”, ha scritto.
Nella già importante e definitiva differenza sessuale tra donne e uomini è purtroppo evidente che, se gli uomini possono fare a meno di considerare il corpo come elemento primario nella loro esistenza individuale e sociale (fingendo che non sia importante) le donne semplicemente non possono farlo, perché il loro corpo è connesso e ritmato in modo puntuale con ritmi, tempi e scansioni ineluttabilmente legati alla natura. Per questo anche il materiale simbolico, onirico e fantasioso non può, nemmeno quando lo si sublima nell’arte, fare a mano di considerare il corpo. Un manifesto femminista degli anni ’70 recitava così: our body is a battleground. Detto altrimenti certo che la fantasia ha un sesso: pensate a come Sojourner Truth a fine 1700 fantasticava ma anche proponeva concretamente la gioia della rivoluzione: È bene se mentre lottiamo per la libertà cantiamo e danziamo un poco. E le fa eco Emma Goldmann, quando afferma: se non posso ballare non è la mia rivoluzione. Ecco, due esempi con i quali indicare che la fantasia femminile è connessa al corpo, e come potrebbe essere altrimenti?
Non a caso il primo testo che vorrei citare si chiama Incubo genetico ed ha al centro il delirio di onnipotenza maschile che prova a fare a meno della potenza generativa del corpo femminile. Il folgorante romanzo dell’americana Nancy Kress (uscito per Fanucci nel 1999), ideatrice dell’interessante serie che racconta della stirpe dei non dormienti, la trilogia del 2005/2008 de I mendicanti di Spagna, edita da Delos, risultato dell’ottimizzazione delle prestazioni umane ottenute con la manipolazione genetica, punta la luce sull’ingegneria delle molecole umane, e parla di corpi ridotti a pezzi di ricambio per un solo scopo.
Lo fa spietatamente, senza mezze misure, con un linguaggio asciutto e diretto, scegliendo di far incontrare nello scenario rarefatto e credibile di una grande metropoli nord americana in un futuro non remotissimo, tra circa cinquant’anni, una ragazza senza famiglia, un giovane ballerino gay e uno scienziato.

Corpi: giovani e sani i primi due, malato e provato il terzo, ma tutti quanti ostaggi sulla scacchiera di una esistenza la cui sorte è segnata dall’eredità lasciata dagli antenati del lustro precedente, nel quale il susseguirsi di guerre devastanti per persone e ambiente hanno deciso il declino irreversibile della riproducibilità umana, la condanna alla sterilità.
Suona familiare, di questi tempi, vero? Come illudersi, infatti, che ciò che si legge stia solo sulla carta, e che la fantascienza letteraria e cinematografica possano ancora considerarsi un genere di evasione e di virtualità?
Parlare di corpi, sessuati e potenzialmente riproduttori, guardando alla scrittura delle donne nel genere fantascientifico significa (purtroppo) guardare all’attualità, costellata da conflitti sanguinosi nei quali si muore, si uccide e, nel farlo, si lasciano tracce invisibili e letali per i decenni a seguire (come è successo per l’ Iraq, il Kosovo a pochi anni di distanza, e poi oggi in Ucraina, Palestina e Congo, solo per citare gli eventi più recenti) e vuol dire anche fare i conti con le conseguenze che tutto ciò provocherà anche sulla salute riproduttiva umana.
In questo rispecchiarsi, ricco di rimandi tra fiction e cronaca dei nostri giorni, di immaginario allucinato e di allucinante realtà quotidiana, la fantascienza delle donne si è fatta portavoce delle inquietudini, ma anche delle denunce e del dissenso rispetto alla cultura dominante sull’immaginario e il simbolico sui corpi di uomini e donne. La Kress ne è testimone mentre descrive l’ossessione della società americana opulenta e capricciosa per i figli e le figlie impossibili, e le aberranti scorciatoie ideate per sanare un desiderio, l’unico rimasto da soddisfare, che non può più essere appagato.

Non voglio svelare altro della trama, visto che l’opera si muove nel registro narrativo a metà tra la fantascienza e il giallo; il dato interessante è che l’autrice non può aver scelto questo argomento senza aver fatto i conti con un illustre e recente precedente: I figli degli uomini, unico romanzo di fantascienza della straordinaria giallista P. D. James, datato 1992, edito da Mondadori e diventato film nel 2006.
Anche qui l’umanità è stata punita duramente con la sterilità per avere dilapidato i suoi frutti, in un futuro non più lontano di una quarantina d’anni. Il pianeta, privato del suono e della magìa della voce dei cuccioli, è sterile nello sperma come nella speranza, e questo mutismo definitivo della generatività porta con sè anche la fine della creatività umana.

Così Faron, io narrante del libro, descrive il clima emotivo della Terra: “Non possiamo provare nulla se non il presente, non possiamo vivere che nel momento presente e capire che questo significa arrivare il più vicino che ci sia concesso alla vita eterna. Ma la mente ripercorre secoli di vita cercando rassicurazione nei nostri antenati e, senza eredi, non solo nostri ma dell’intera specie umana, senza il conforto di una vita dopo la nostra morte, tutti i piaceri della mente e dei sensi mi paiono talvolta nulla più che patetiche e fragili difese innalzate contro la rovina”.
Corpi, privati della possibilità di scegliere: nella castrazione, nella sterilità oppure, archetipo di tutte le privazioni, nella libertà d’azione. Ne Il racconto dell’ancella, testo della canadese Margaret Atwood che ha cassandramente precorso la tragica vicenda delle donne afgane sequestrate dal regime fondamentalista talibano, i corpi femminili sono immobili e resi invisibili dall’assenza di diritti di cittadinanza. Conta solo la capacità riproduttiva, anche qui leit motiv del racconto, e la sterilità è una colpa che si paga con la vita. Magistrale, tratti dal testo, il film del 1990 e la serie tv del 2017.

Da questi scenari da incubo è difficile uscire, se non con la rabbia e l’estrema rottura degli schemi simbolici: ecco dunque il fronteggiarsi del corpo cangiante della telepate Mary contro il padre/amante Doro, personaggi della serie ideata da Octavia Butler nei suoi Seme selvaggio, La nuova stirpe e Sopravvissuta, tutti usciti da Interno giallo nel 1991/1995.
Decisamente nella scia del pensiero femminista che guarda alla tecnologia del cyborg le donne dal corpo e dalla mente cangianti di Butler sono frutto della contaminazione tra umano e tecnologico, e percorrono lo spazio e il tempo con l’energia della mente e della telepatia, fronteggiandosi con il maschile in una perenne oscillazione tra desiderio e totale alterità.
Il suo lavoro di sovversiva amazzone della scrittura è curiosamente assente dall’antologia che, finora, rappresenta lo specchio più fedele delle ultime elaborazioni del pensiero femminista e transessuale sul corpo e le sue allegorie: Meduse cyborg, edito da Shake nel 2002, nella quale figurano tra le altre Kathy Acker e Pat Cadigan, esponenti della generazione punk di scrittrici di fantascienza.
Non a caso nei loro libri il corpo è il grande assente: tutto è cervello, velocissimo scambio virtuale di entità psichiche, contatti virtuali nei quali poco importa l’identità del corpo, se mai ne è esistita una.
Perché il corpo non c’è se non nella sua continua trasformazione, ridefinizione nel genere e nel sesso in continua smentita, presenza in transito, soggetto e oggetto nomade, per dirla con il pensiero di Rosi Braidotti.

Nella loro produzione letteraria, ad esempio Mindplayrs e Sintetizzatori umani della Cadigane in Synners della Acker non c’è spazio per il corpo così come noi lo percepiamo, semplicemente perchè esiste solo la dimensione del tempo presente. Un presente incorporeo, dominato dall’incrociarsi e confondersi dei piani sensoriali, azzerati dalla preminenza delle attività virtuali e sconnesse prodotte dalla mente. Sembrano lontane le suggestioni cariche di domande e di sfumature sul senso dell’identità dei corpi, sullo scambio e sulla relazione tra le tante e diverse differenze che albergano in alcune opere chiave delle grandi autrici del genere fantascientifico: La mano sinistra delle tenebre di Ursula Le Guin, The female man di Joanna Russ, La difesa di Shora di Joan Slonczewsky, Cybergolem di Marge Piercy, per citarne solo alcune: si tratta di testi grondanti di una forza utopica che proprio a partire dai limiti consapevoli dei corpi trae il senso della sfida, concreta e simbolica, a qualunque forma di oppressione.

Sarò impopolare, specie tra le amanti del genere transgender e cyberpunk, ma mi resta un dubbio: non sarà che, per lontano che si corra, è comunque inevitabile fare i conti con la corporeità e il suo ineluttabile ingombro?
Non è un caso che tutto abbia avuto origine nel 1818: una giovane donna, che con la sua nascita aveva decretato la morte della madre, dava alla luce l’unica creatura che riuscirà a sopravviverle: un mostro partorito su carta dalla sua fantasia, forse dal bisogno di sublimare il senso di colpa, certamente un’opera straordinariamente profetica. Il suo nome è Frankenstein, il primo libro della letteratura moderna che introduce il tema del cyborg. Quella giovane, Mary Shelley, uccideva inconsapevole la protofemminista Mary Wollstonecraft, sua madre, autrice nel 1790 del pamphlet A Vindication of the Rights of Woman.

L’ossessione del corpo come elemento carico di echi mortiferi, e allo stesso tempo la curiosità vitale per gli effetti della sua resurrezione mediata non dalla divinità, ma dalla scienza umana, ha portato Mary Shelley ad anticipare i temi che altre autrici riprenderanno, secoli dopo, nella scrittura fantascientifica.
“Abbiamo tantissime parole per definire gli stati d’animo e così poche per indicare le emozioni del corpo!”
(Jeanne Moreau)

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