I- Secondo Borges, Schopenhauer e soprattutto Max Steiner hanno insegnato che le “bestie si trovano nella pura attualità o eternità, fuori del tempo”.
Esse non avrebbero alcun concetto di durata, o successione temporale.
Sarei portato a negarlo: mi pare un’indebita estensione delle loro limitazioni, almeno di quelle che a noi, appaiono tali.
Siccome gli Animali non hanno in generale alcun concetto, gli si nega e si toglie anche quello del Tempo.
L’esperienza insegna tuttavia che le bestie conoscono la successione causale e sono in grado d’apprenderla e gestirla ai loro modesti – o misteriosi – fini. Le formiche mettono da parte vettovagliamenti per l’inverno: difficile non attribuir loro un’idea dell’alternanza delle stagioni.
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Si accarezza un cane vecchio, che mugola perché s’accorge che, fisicamente, non ha più la lena d’inseguire una lepre, o correre e giocare come un cucciolo. Il cane si sente “vecchio”: lo si nota, e così anche per altri animali. La loro tristezza è eloquente, e in questo modo ci ammoniscono che, per loro, una certa stagione della vita è trascorsa.
Il cane appeso al suo guinzaglio fuori dal negozio non sa, se il suo padrone ne uscirà mai. E questo dolore inficia, certo, la sua concezione del Tempo, e del Futuro.
Un nuovo giorno, per gli animali, non è uguale al precedente: sono loro che cercheranno di renderlo simile, se è stato felice.
Il fatto è che non siamo allenati a capire esseri e creature così simili a noi, per certi versi, ma così parchi e lineari nei loro desideri.
È comunque consolante che i filosofi abbiano trovato – sia pure attribuendola alle bestie – un’Eternità possibile nel Tempo.
Ci addolora che abbiano supposto sia un’eternità da idioti.
II- Osserva Canetti negli appunti de La Provincia dell’ Uomo: “Ogni volta che si guarda con attenzione un animale, si ha l’impressione di vederci dentro un uomo che si fa beffe di noi”. È vero. Posso confermarlo dopo la mia esperienza di lavoro in un Giardino Zoologico, la mia amicizia per il rinoceronte, il mio accostarmi al flemmatico orango: c’è un “uomo” dentro l’animale.
Ma non si burla di noi. Spesso, al contrario, soffre per noi. A causa nostra, certamente; ma anche, sospetto, “al posto nostro”. Tanto gli appariamo miserevoli e degni di compassione.
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III- Anche per me il più bel posto del mondo è stato: una panchina sull’erba.
A Roma, un luogo in particolare mi è caro: Villa Borghese, perché è rimasta identica, nella mia memoria, dal tempo della mia infanzia. La mia passeggiata ideale è ancora muovermi da casa fino al “Giardino Zoologico” che è incastonato là dentro. L’attuale “Bioparco” purtroppo ha mutato, e molto, l’interno, rispetto agli anni ’50 e ’60. Ma io ricordo lo Zoo com’era fino alla fine dello scorso millennio, quando varcando i suoi cancelli sembrava d’entrare in un Kolossal dell’epoca del muto, o far da comparsa in un film girato a Cinecittà durante il ventennio.
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Ho lavorato per due anni nel Giardino Zoologico, in gioventù. Mi aveva assunto, in modo assai precario, il Comune. Ero uno studente universitario, e facevo la “guida” per pochi spiccioli, scortando decine di bambini delle scuole elementari in libera uscita, qualche volta un centinaio, su e giù per i viali. Ricordo con piacere e stupore certe loro domande: uno, che avrà avuto dieci anni, mi fermò davanti alla gabbia del Tapiro – un perissodattilo simile a un maiale, che arriva a pesare anche tre quintali –, per chiedermi: “Ma è vero che i tapiri assaltano gli uomini per succhiargli il sangue?”. Aveva confuso i vocaboli. Pensava che fossero Vampiri, non Tapiri.
Accadeva anche, ma per fortuna raramente, che l’enorme elefante africano che vagava quasi cieco avanti e indietro per il recinto scosceso, sfoggiasse una nuova, gigantesca, “proboscide” tra le zampe, eccitato dalla vicinanza di due attraentissime elefantesse indiane. Allora i bambini chiedevano: “cos’è?”, indicando turbati l’apparizione di quella lunga lunghissima appendice rosa carne, che non rientrava nelle loro conoscenze o aspettative. Io mi sentivo esentato dal rispondere e rivolgevo una sguardo implorante alle maestre. E quelle ridevano, ma anche loro erano del tutto impreparate… – Già, cos’è? – chi conosce quella risposta sa tutto, o niente, della vita?
La cosa più strana è che la maggioranza di quei ragazzini, dopo un po’, immancabilmente si annoiavano di vedere gli animali più esotici e inauditi e volevano sapere dove trovare i conigli, le mucche o gli asini, o altre bestiole molto più comuni. E davanti alle gabbie delle pantere, bastava l’arrivo di un gatto, ma libero, per assorbire tutta la loro attenzione.
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primi visitatori dello Zoo di Roma
Ero felice là dentro, anche se, certo, non tutti gli abitanti dello Zoo condividevano il mio stato d’animo.
Conoscevo di persona ogni animale e ogni angolo più remoto e meno frequentato del parco. Il mio luogo preferito era un laghetto incontaminato in mezzo a alberi fronzuti e alti cespugli, una scheggia ancora selvaggia di natura. Lì vivevano, indisturbate, le papere, insieme a altre creature lacustri e gentili. Davvero mi sembrava il posto più bello di Roma, riservato soltanto a me, perché non era segnalato se non sulle carte, era isolato, e all’ora di pranzo, soprattutto, non passava nessuno. Potevo fermarmi su una panchina, davanti a un ponticello, e studiare tranquillamente i libri di testo da portare agli esami, accompagnato da un sottofondo di rumori e richiami garbati: tuffi di carpe, starnazzi di germani, versi di cigni “musici” che, al contrario dei parenti muti, non aspettavano affatto l’ultimo istante di vita per mettersi a cantare. Un vero paradiso metropolitano.
Poi mi rimettevo in marcia, perché mi aspettavano altre torme di scolari.
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I racconti dei guardiani, erano leggendari, vera mitologia. Mi dissero i biologi che una volta uno di questi, mentre se ne stava a mangiare nel suo ritiro dietro i serragli delle scimmie più grandi, s’era trovato, all’improvviso, di fronte, l’immenso Gorilla. Era stato uno scherzo, per l’animale, piegare e aprire le sbarre e raggiungerlo. Era infuriato, ma non sapeva decidersi. Non aveva la minima idea di cosa fare, una volta in libertà. Allora gli morse il dorso della mano, e “la scoperchiò come una scatola di sardine”.
Ci fu un giorno che da una gabbia, forzando un’inferriata con la forza dei loro “avambracci”, fuggirono due giaguari. C’ero anch’io, e dovetti rincorrere i visitatori tra i viali per avvertire tutti, ma sottovoce, che era meglio per loro se raggiungevano velocemente l’uscita. Lo Zoo fu chiuso al pubblico, finalmente. E partecipai (ma solo come “avvistatore”) alla battuta di caccia guidata dal capo-biologo, che aveva un fucile che sparava non pallottole, ma siringhe, e con quello riuscì a addormentare i fuggitivi…
Ci sono ricordi associati al mio lavoro di allora che mi fanno piacere, e mi fanno sorridere. Il tigrotto per esempio, che ho allattato, neonato di pochi giorni, che faceva le fusa tra le mie mani, e beato affondava gli artigli già sviluppati e ricurvi dentro i miei blue jeans, e mi graffiava (mi domandavo: come potevano le madri tigri sopportare quel doloroso sprimacciare?). Ricordo con gioia i due rinoceronti che si alzavano sentendo il mio arrivo, e a loro davo, colta nei prati, l’erbetta fresca da mangiare – due amici! Li accarezzavo intorno agli occhi, dove avevano la pelle un po’ sensibile, e mi lasciavano fare… Una volta una scimmietta cappuccina, che veniva curata per un raffreddore, si liberò e saltò sul davanzale, pronta a scappare dall’ambulatorio. Io l’afferrai appena in tempo e lei mi morse, ma solo perché era spaventata… E quando (esperienza degna dell’Isola del dottor Moreau, di H. G. Wells) ho assistito all’autopsia di un leopardo che si era strangolato impiccandosi nella sua gabbia troppo angusta e solitaria, ho scoperto che sotto la pelle quella “fiera” non era in nulla dissimile da un essere umano …
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Davvero: forse che, sfregando la Lampada magica delle notti arabe, chiederei al Genio tutto l’oro del mondo? No: poter parlare agli Animali, ecco quel che chiederei; domandar loro, e poterli ascoltare – anche solo quel poco che mi vorranno dire…
[in copertina: Testa di Tigre, di William Huggins]