I- Il 29 maggio 1945, a guerra finita, a regime nazista già dissolto con la caduta di Berlino, ben 22 giorni dopo la resa incondizionata della Germania agli Alleati, il piccolo Richard Jenne, età 4 anni, fu soppresso nell’Istituto di “cura” bavarese nel quale era internato, in ottemperanza alle più atroci disposizioni del defunto führer in tema di “igiene razziale”.
Fu come se, nei lager, i forni crematori non avessero mai smesso di bruciare. Nonostante la pace imposta e al di fuori d’ogni legge scritta, un’infermiera, col consenso dei medici, spense la sua giovane vita. Ennesima, insensata, ultima “Morte per compassione” – come venne chiamato questo tipo di uccisioni dagli imputati al secondo processo di Norimberga.
Richard Jenne era un bambino, a giudicare dalle fotografie, (mi scuso per il termine) d’aspetto “normale”. Tuttavia, a meno di 4 anni, venne ritenuto un soggetto alieno, inadeguato a rappresentare la razza pura che secondo il terzo reich era destinata a dominare il mondo. In questa accolita di superuomini e superdonne non rientravano i disabili né i soggetti afflitti da “malattie mentali”: accezione quest’ultima che soprattutto in tempo di guerra fu intesa nel senso più largo possibile, perché qualsiasi oppositore, o adolescente ribelle alle direttive militari, sembrava ai nazisti “debole di mente” o piuttosto, come usavano chiamarlo, “psicopatico asociale” (Asocialer Psychopath). Prima si sottraevano fanciulli e ragazzi a forza o con l’inganno ai genitori, poi, nelle cliniche dove dovevano “curarli”, si somministrava loro una dose potente di barbiturici, gas o altri veleni; infine, sul certificato del decesso, appariva sempre, come causa, una compassionevole “broncopolmonite”.
Il Programma di eutanasia (denominato dai nazisti Eu Aktion e passato alla storia anche come Aktion T4) condannò a morte, secondo stime elaborate per difetto, almeno 250 mila persone, tra bambini e adulti.
Il führer aveva annunciato questa liquidazione di massa già nel suo “mein kampf”: la giudicava un’opera “educativa”, dagli esiti più grandiosi che le vittorie in guerra. In effetti, il conflitto franco-prussiano del 1870 aveva causato meno vittime: la metà.
Il repulisti genetico non prevedeva solo la soppressione delle vite “inutili” di bambini e ragazzi problematici, ma si estendeva fino a colpire i loro veri o potenziali genitori.
Il 25 luglio del 1933, a meno di 6 mesi dalla presa del potere di Hitler, fu promulgata una “Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie”: il mezzo più semplice per questo genere di profilassi sembrò ai collegi medici nazisti la sterilizzazione della totalità degli alcolisti, degli schizofrenici, dei “ritardati”, degli epilettici, dei non vedenti, dei sordi dalla nascita, dei “malformati” e d’altre categorie che rientravano nell’arbitrio dei sanitari collusi col potere.
Fu fatto subito un primo censimento: i cosiddetti “pazienti” da sterilizzare superavano le 400 mila unità. Ci fu però una tacita gara tra i gerarchi interessati e le autorità che vigilavano sulla salute del Reich per incrementare e irrobustire questo numero. Naturalmente, al di là di ogni connotato clinico, gli israeliti entrarono presto sia nel “programma eutanasia”, sia in quello di sterilizzazione: era più che sufficiente, per liquidarli come razza, che fossero ebrei, o anche solo “di sangue misto ebraico-ariano”.
Il personale medico e paramedico, ostetriche e levatrici comprese, aveva l’obbligo, per legge, di segnalare ogni caso sospetto di devianza e “impurità”. Quanti, tra gli addetti del settore sanitario, esercitarono allora una lodevole omertà?
II- Il Male, è stato detto, divenne “banale” sotto il nazismo; banali e mediocri furono perfino gli ideatori dei genocidi, i “solutori finali”, non troppo dissimili da semplici impiegati. Non so quanto sia vero. Ma è sicuro che per i mandanti degli eccidi divenne “banale” trovare chi si prestava al posto loro alle mattanze, alle delazioni, ai plotoni d’esecuzione che eseguivano gli ordini sotto forma di pallottole. Pedine volenterose, ressa di volontari che non discutevano, e non vedevano l’ora che qualcuno, un superiore con mostrine, desse loro l’ordine di “non pensare”.
Si comincia a chiedersi: “già, perché non farlo? perché NO?”, e poi si resta sospesi, inconsapevoli, in transe “collettiva”, nell’attesa messianica di qualcuno che ti urli, da tutti i mezzi di comunicazione e di propaganda: “Perché SÌ!”.
Il fatto è che le dittature sono, in generale, le vere Utopie Sociali dei codardi.
Emblematico mi sembra il caso di Viktor Brack, un medico condannato e impiccato dopo il secondo processo di Norimberga.
Brack apparteneva alla cancelleria privata del führer, e quando Hitler creò personalmente un “Comitato del Reich per il rilevamento scientifico di malattie ereditarie e congenite gravi”, volle che a dirigerlo fosse proprio questo suo fedelissimo.
Arrestato dagli Alleati e imputato insieme a altri medici e scienziati, si difese, presso i giudici, senza ammettere colpe specifiche, ma presentandosi piuttosto come un “filantropo”.
Sostenne (Mitscherlich e Mielke riportano le sue dichiarazioni), che giudicava indegno “della Germania e di tutta l’umanità” il progetto di sterminio del popolo israelita. Tuttavia, una soluzione alla “questione ebraica”, anche secondo lui, andava trovata. Brack si riunì quindi con altri luminari della medicina, che apprezzava anche per le loro doti di inventiva. “Ragionando, pensammo che si potevano trasportare gli ebrei in qualche remoto paese, e ricordo che il Dott. Havelmann propose l’isola del Madagascar”. Tuttavia si rese conto che il progetto era di difficile realizzazione, e, sempre per motivi che giudicava “umanitari”, suggerì “che il problema ebraico poteva essere risolto con la sterilizzazione“.
Il “metodo” raccomandato da Brack è assurdo e macabro al tempo stesso. Egli propose a Himmler di sterilizzare decine di migliaia di persone di razza “non ariana” esponendoli a una fortissima e continua radiazione di raggi X, ma con un sotterfugio. Questa incapacità a gestire l’atto malvagio, altro che oscuramente, o proditoriamente, rivela un carattere essenziale, profondo e costitutivo, dei complici di Hitler.
Scrive Brack: “un sistema pratico potrebbe essere questo, per esempio: far venire davanti a uno sportello le persone da sbrigare [il corsivo è mio], con la scusa che devono rispondere a delle domande o riempire dei moduli, e così trattenerle lì per due o tre minuti. Il funzionario che sta seduto dietro lo sportello può manovrare l’apparecchio, precisamente azionando una leva con cui si mettono in funzione due tubi contemporaneamente (l’irradiazione deve infatti essere bilaterale). A questo modo, con un impianto munito di due tubi, si potrebbero sterilizzare circa 150-200 persone al giorno, e, se gli impianti fossero venti, tremila o quattromila”.
Il progetto sembra al medico impeccabile, efficiente. Ha solo un piccolo difetto: “sembra che non sia possibile evitare che, prima o dopo, gli interessati si accorgano di essere stati sterilizzati ovvero castrati con i raggi X”.
Ecco cosa intendevano i fiancheggiatori e gli esecutori inflessibili del nazismo per “umanitarismo”: evitare, per le vittime, sofferenze inutili (come quella, in generale, esistenziale, di “essere nel mondo”, ossia di vivere), e, per i carnefici, evitare altri sgradevoli inconvenienti, del tipo: “farsi scoprire”.
Anche nel caso delle “Fosse Ardeatine” uno dei più barbari eccidi di civili mai perpetrati contro gli Italiani, i nazisti si comportarono così. La strage fu ordinata per “rappresaglia”, dopo l’attentato di via Rasella a Roma, nel quale avevano perso la vita 33 soldati tedeschi. Le SS non diedero, di fatto, alcuna possibilità ai partigiani, esecutori materiali dell’agguato, di consegnarsi o di autodenunciarsi. Neppure condussero serie indagini per scoprire chi fossero i responsabili dell’atto. Condannarono invece immediatamente a morte 335 persone – dieci per ogni tedesco ucciso, più cinque, aggiunte per pura crudeltà. Tra loro c’erano detenuti, anche innocenti, delle carceri romane, prigionieri politici, militari fedeli alla corona, passanti rastrellati alla cieca nelle strade, un sacerdote e naturalmente anche più di settanta cittadini di religione ebraica in attesa di deportazione.
Dopo aver fucilato gli ostaggi in un reticolo di cave, minarono l’ingresso al luogo della carneficina, che fu sepolto sotto le macerie. E fecero in modo che né i romani né l’opinione pubblica mondiale sapessero nulla di quanto e come era successo. Tranne un vago accenno, in un comunicato diramato a cose fatte.
Nessuna efferata “rappresaglia” può essere condotta in questo modo: senza pubblicità. A che scopo allora la vendetta armata per ritorsione contro un’azione della lotta partigiana, se non ottiene effetto sul nemico, se anzi la si occulta?
L’operazione “Notte e Nebbia”, ugualmente, molto rivela sul senso riposto dell’apparato di terrore messo in piedi dal terzo reich. Il decreto Nacht und Nebeln, emanato da Hitler il 7 dicembre 1941, doveva colpire in primo luogo eventuali sacche di resistenza nei territori occupati dell’Europa dell’ovest. Dovevano essere puniti i crimini “contro lo Stato e contro la sicurezza dei tedeschi”, ma questi pretesi reati potevano essere anche solo d’opinione. La condanna a morte, in assenza di processo, seguiva immancabilmente, ma: doveva rimanere segreta.
Il generale Keitel, illustrando ai suoi scherani il decreto “Notte e Nebbia”, spiegò che ogni arrestato doveva “essere trasportato segretamente in Germania”, e che i prigionieri dovevano sparire “senza lasciar traccia”. Come ricorda la Storia del terzo reich di William Shirer, era essenziale, per il successo dell’operazione, che poi non venisse data nessuna informazione né sul luogo dove si trovavano, né “sulla loro sorte”. Gli arrestati dovevano essere inghiottiti nel nulla. Il tributo di sangue reclamato dai tagliagole in uniforme andava versato sotterraneamente, quasi fosse un sacrificio a divinità telluriche senza nome, come se la morte dei sospetti fosse miticamente iscritta nel destino più cieco e irrimediabile.
III- Noi tutti viviamo adesso in un periodo oscuro, nel quale i fascismi e i loro slogan sembrano ancora affascinare milioni di persone. Ciò è dovuto sicuramente a una scarsa conoscenza della storia, ma anche a una generalizzata diffidenza (spesso motivata) sul modo in cui questa viene raccontata.
In ogni caso, la Verità è un valore che va difeso, al di là e contro ogni posizione ideologica. E ciò che è accaduto il 29 maggio 1945 a Richard Jenne, bambino di 4 anni, è vero e documentato.
Non ci fu, da parte dei suoi assassini, nessuna aberrazione personale, nessuna deviazione, nessun tradimento degli ideali del nazismo imperante fino a pochi giorni prima. I meschini, i mediocri, i banali servi del Male poterono dire, anche nel suo caso, che avevano solo eseguito degli ordini.
Comprendere fino a che punto la morte di Richard Jenne fu invece la logica conseguenza di dottrine intrinseche e connaturate ai fascismi e in generale alle dittature, è il solo modo che abbiamo, adesso, di onorare la sua Memoria, e di rispettarne, come simbolo, il significato.