Il testo più controverso di Luciano di Samosata, geniale autore di quel capostipite dei Viaggi Fantastici che si intitola La Storia “Vera”, è sicuramente: Della morte di Peregrino.
I critici da secoli discettano se dietro il ritratto di questo filosofo cialtrone Luciano non volesse deridere e stroncare il fondatore del nascente Cristianesimo, Gesù. Non intendo contribuire a questa diatriba. Mi interessa piuttosto mostrare come si possa “inventare la Verità” su quello che si è svolto sotto gli occhi di tutti, e che chiunque dei testimoni, se volesse, se non fosse esaltato dalla prospettiva di aggiungersi alla pletora dei visionari che “fondano leggende”, potrebbe smentire. Nella Fantaenciclopedia ho chiamato questo processo contagioso: “Teatro della Menzogna”.
Luciano di Samosata scrisse a Caronio una lettera in cui raccontò i particolari Della morte di Peregrino, detto anche “Proteo”, un avventuriero che per il suo desiderio oltraggioso di fama egli paragona al piromane del Tempio di Diana in Efeso, ma che supera persino quello: “un uomo” – dice la traduzione del Settembrini – “che fu il più vanitoso di quanti mai andarono in fregola per amor della gloria”.
Peregrino (o più modernamente, Pellegrino), filosofo cinico, patricida, contumace, per compiacere le folle s’era fatto anche cristiano, ma poi, esaurito ogni altro espediente per far parlar di sé, annunciò pubblicamente di volersi dar fuoco durante i giochi olimpici del 167. Alle parole, aggiunse anche promesse scritte: le sue lettere, e i suoi testamenti, pieni d’ammonizioni e precetti, circolarono nelle maggiori città della Grecia. I suoi ambasciatori, che recavano dovunque la notizia del suo proposito di suicidarsi, li chiamò “nunzi dei morti e corrieri dell’inferno“.
“Eppure egli dice che fa questo per il bene degli uomini, per insegnar loro a disprezzare la morte, e durare ai tormenti”, testimonia Luciano; ma ne dubita, come dubita davvero che il filosofo volesse lasciarsi bruciare sul rogo. Poiché anteponeva a ogni altra cosa la lode del popolo, Peregrino forse sperava che le masse accorse ad Olimpia l’ avrebbero dissuaso con manifestazioni d’affetto e di terrore a darsi la morte; al momento opportuno, però, se non mancò chi si commosse, la moltitudine degli altri, convenuti ai Giochi per godersi lo spettacolo del rogo, gli comandarono di rispettare la promessa fatta. Grandi folle infatti avevano intrapreso un lungo e costoso viaggio, solo per essere presenti a quel martirio, e non volevano restare deluse. Il filosofo montò così sulla pira ardente e, dopo aver raccomandato all’anima della madre e del padre (che lui stesso aveva ucciso), d’accoglierlo, scomparve tra le fiamme.
Luciano stesso era a Olimpia quel giorno, in prima fila, e ai ritardatari, ai più distanti o ai curiosi che volevano tornarsene a casa con qualche reliquia del morto, per riderne, raccontava questa fola cialtrona: “dicevo che quando la catasta bruciava, e Proteo vi si gettò, s’intese un gran terremoto con un rombo sotterraneo, ed un avoltoio volando dal mezzo della fiamma verso il cielo aveva proferito con una gran voce umana queste parole: Lascio la terra e me ne salgo al cielo. E quelli allibivano, e tutti tremanti facevano atti d’adorazione, e mi domandavano se l’avoltoio era volato a levante o a ponente: e io rispondevo ciò che mi veniva in capo”.
Assistiamo così alla nascita d’una leggenda: perché altro non vuole la folla che le si racconti in modo arcano, inverosimile e pazzesco quel che lei stessa ha visto svolgersi diversamente. E vediamo pure con che meccanismo la Menzogna attizzi la Fama e si diffonda: perché subito dopo aver inventato quelle panzane, Luciano si imbatte in un venerabile vecchio, un altro testimone della fine di Peregrino, e lo vede circondare dalla sua stessa folla d’ansiosi creduloni. E a chi gliene domandava, il vecchio aggiungeva nuovi particolari sull’apparizione dell’avvoltoio: “giurava che con gli occhi suoi l’aveva veduto volare dalla pira. Eppure quell’avoltoio l’avevo fatto volare io per ridere un po’ di quegli sciocchi che m’avevano stufato con tante domande”.
Né quel testimonio dall’aria e dalla barba candida e grave, si limitava a improvvisare sui temi altrui: perché asseriva pure d’aver appena incontrato Proteo, vestito di bianco, vivo, che passeggiava nel portico, per nulla scottato dal rogo, ma “tutto lieto e con una corona d’oleastro sul capo”.
Non si sa fino a che punto, e con che ironico compiacimento, Luciano abbia narrato questi particolari per avvicinare la morte di Peregrino a quella di Gesù, e per sbugiardarne i prodigi che le furono associati, per come li raccontano (solo loro) i cristiani.
[in copertina: Le rêve du poète, di Alberto Savinio (1927)]